Sabra e Shatila. Ce lo dissero le mosche.

Robert Fisk , settembre 1982.

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.

Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.

All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.

Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.

In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.

Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.

Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.

Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.

Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.

Un ricordo di Gianni Minà

Articolo originale pubblicato il 29 marzo 2023 su Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” ( http://www.cese-m.eu/cesem/2023/03/un-ricordo-di-gianni-mina/ )

Cercare di riassumere la carriera professionale di quello che, a mio avviso, è stato uno dei più grandi giornalisti italiani oltre ad essere impresa difficile è, nel giorno della sua scomparsa, inutile.

É inutile perché qui non si sta salutando solo un grande giornalista ma anche un grande uomo, le due cose non sempre vanno di pari passo. E si non tutti i morti meritano lo stesso ricordo. 

La carriera, la vita, e le idee di Gianni Minà devono essere da esempio oggi più che mai perché stiamo vivendo in un periodo tragico per il giornalismo italiano. Oggi tanti piccoli giornalisti e piccoli uomini cercheranno di tesserne le lodi, con un bel coccodrillo preparato per tempo. Minà, come dichiarato in una recente intervista, non ha mai avuto risentimento per chi negli anni lo ha attaccato, se non proprio denigrato. Per chi, come noi, vedrà tra questi, probabilmente, chi ha fatto in modo e maniera che venisse praticamente epurato dalla RAI dopo aver innovato e dato lustro con le sue interviste, i suoi ospiti, i suoi format, ad un azienda da sempre ingessata dalle varie lottizzazioni, forse un qualche senso di disgusto lo proverà. 

Ma del resto questa è l’Italia. Un paese dove la propria opinione deve sempre ben calcolata se si vuole “far carriera” e dove magari quell’opinione deve essere “riformulata” in base al vento politico se quella carriera si vuole continuare ad averla. Soprattutto in un azienda pubblica. Sopratutto in un’azienda pubblica che forma l’opinione pubblica, che influenza l’opinione pubblica. E non staremo certo qui a specificare la differenza tra informazione e propaganda. Tra parteggiare e propagandare.

Gianni Minà era un partigiano dell’informazione, perché, si, aveva le proprie idee, le professava e ne ha pagato le conseguenze.

I suoi legami con leader sudamericani Fidel Castro, Chavez, Lula, Alberto Granado, solo per citarne alcuni, a fine anni ’90 portano alla marginalizzazione e poi esclusione di Minà dai progetti della RAI (anche se forse più di tutto gli costò la sua integerrima ricerca della verità sul caso Ilaria Alpi, la sua intervista ai genitori) ma non ne impedirono la divulgazione con altri mezzi. Da direttore di Latinoamerica e tutti i sud del mondo (fondata nel 1979 da studenti e ricercatori dopo la rivoluzione sandinista in nicaragua) ha infatti continuato a portare avanti le battaglie e le rivendicazioni dei popoli in lotta, così come le sue interviste sono continuate a circolare sui media indipendenti dando visibilità e raccontando quella stagione che vide il suo apice nel World Social Forum del 2001 a Porto Alegre. Primi anni 2000 che però segnavano l’ascesa di Kirchner in Argentina, Correa in Ecuador, Lula in Brasile, Morales in Bolivia. Poi per chi si avvicinava alla politica in quegli anni Minà non può che essere un punto di riferimento con l’intervista al subcomandante Marcos che ha segnato i giovani attivisti dei primi anni ’00 forse come poche altre perché portava alla luce una realtà fino ad allora sconosciuta, una lotta in atto e non raccontata, passata, come poteva essere quella di Che Guevara e di Fidel Castro durante la rivoluzione cubana. Quella dell’EZLN nel Chiapas era lotta attuale, diceva che la rivolta era e doveva essere ancora attuale e possibile per i popoli oppressi. Stagione che per tanti coincide con i tristi ricordi del G8 di Genova dove forse venne definitivamente spento quel fuoco di rivolta (per lo meno in Italia, in Europa) l’idea di un mondo diverso, dove l’impatto con la realtà dei fatti tarpò un po’ le ali di una generazione. La storia poi sappiamo come è andata. 

Questo mio personale ricordo penso sia però esemplare dell’impatto che alcune notizie, alcune informazioni, ma forse sarebbe meglio dire alcune narrazioni hanno nell’immaginario collettivo, come formino storia, diventano storia. Questo fa di una semplice informazione, di un fatto, un’idea che vale la pena di divulgare, di far conoscere, di condividere con il mondo.

Senza stare a citare le interviste ai grandi della storia di cui sicuramente parleranno tutti i giornali di questi giorni, voglio qui ricordare alcuni ultimi interventi di Minà che secondo me racchiudono poi un po’ tutta la sua storia, e che non hanno neanche bisogno di commenti aggiuntivi.

In uno degli ultimi articoli sulla guerra in Ucraina scriveva: 

“Oggi la mia mente ripercorre quei ricordi dolorosi [sulla seconda guerra mondiale]e vedo che nulla è cambiato: c’è chi inneggia alla guerra, anche nucleare, incurante dei dolori che porta, chi si fa alfiere di vari interessi, chi randella quotidianamente chi la pensa in maniera critica, azzerando il confronto e trasformando il dialogo in una assurda polarizzazione: amico di Putin se sei per la pace o difensore della democrazia se aderisci all’invio di armi per l’Ucraina. Perfino il Papa è stato dichiarato “pacifista estremista”, come se invocare la pace fosse da vigliacchi o peggio, da inetti, incapaci di “prendere una posizione”. Roba da matti, o da incoscienti. O roba da falchi…”

Un altro articolo esemplare è dell’ottobre 2022 dove Minà “rimette al suo posto” Gramellini, uno degli esperti di tutto e di niente che ogni giorno cerca neanche di divulgare idee, giuste o sbagliate che siano, no, cerca proprio di “insegnare a campare” al popolo ignorante e credulone. 

In questo caso il “pezzo” del giorno “Comunisti senza rolex” era sulla polemica riguardante i medici cubani chiamati dalla Regione Calabria e in particolare sul fatto che dei 4700 euro elargiti dalla regione solo 1200 sarebbero andati effettivamente ai medici e il resto allo stato cubano, insieme ad una serie di altri insulti al sistema cubano, ai suoi leader e al suo popolo. 

Da dire che mentre Gramellini può scrivere sul Corriere della Sera con tutto il seguito che ha tra formato cartaceo e digitale, la risposta che Minà diede, e che riporto quasi integralmente in seguito fu affidata al suo semplice profilo su social network, che se pur seguito ha una risonanza infinitesimale rispetto a quella del primo giornale italaino… già questo potrebbe bastare a descrivere la miseria dell’editoria e del giornalismo italiano!

Gramellini il 13 ottobre scorso sul Corriere riprendeva una lettera della europarlamentare Laura Ferrara del M5S che, insieme ad altri suoi colleghi, protestava contro l’accordo quadro firmato dalla Regione Calabria e Cuba per l’invio di medici cubani nel nostro Paese, definendo il loro rapporto di lavoro “sfruttamento e una chiara violazione dei diritti umani”. Il giornalista ha buttato alla rinfusa le cose che ci sarebbero da dire. Lo farò pure io, tanto per andare sul concreto.

La Sanità calabrese da tempo è al collasso e con la pandemia in atto la situazione è peggiorata tanto da rendere questa fetta dell’Italia simile a un Paese del Terzo Mondo. […]

Noi da sempre siamo un popolo generoso e altruista: piuttosto che vedere alla violazione del diritto fondamentale alla salute dei calabresi, siamo attenti ai diritti umani dei medici e infermieri cubani. Sarà forse che siamo talmente abituati allo sfascio di alcune zone del nostro Paese che non riusciamo più a “leggerlo”? O forse perché c’è sempre stato un pregiudizio di fondo dove si preferisce pensare che “lo vogliono loro”, i calabresi, questa situazione, perché non arriveranno mai ad essere operosi ed efficienti come la popolazione del Nord? O semplicemente perché siamo abituati a leggere la realtà che ci circonda con un occhio “occidentale”, eurocentrico, piuttosto che tenere in debito conto le ragioni dell’altro o la sua diversa visione della vita?

Ma vengo al dunque sui punti di Gramellini:

1) “è avvilente dover ammettere che la dittatura cubana riesce a esportare medici in eccesso, mentre noi boccheggiamo in fondo alle classifiche dei laureati”. E’ vero, ha ragione lui, è avvilente, soprattutto alla luce del fatto che per Cuba la sanità e la cultura di massa sono sempre state una priorità. Sempre parlando di Sanità, in quell’Isola nel 1984 nacque il “Programma del Medico di Famiglia”, che mise a disposizione dei pazienti un medico e un infermiere garantendo, a partire dai primi anni ‘90, l’assistenza primaria al 95% delle famiglie cubane direttamente nel proprio quartiere di residenza. In quel periodo si aprirono 21 scuole mediche in tutto il territorio nazionale. Il sistema sanitario cubano ha poi iniziato ad essere preso dall’OMS, dall’Unicef e da altre agenzie internazionali come esempio ideale per Paesi in via di sviluppo […] Insomma Cuba può veramente esportare il suo sistema sanitario al mondo, compreso quello più ricco, perché ha dimostrato che con pochissime risorse economiche si può mettere in piedi qualcosa di eccezionale. […]

2) “è incredibile che in Italia ci sia ancora gente, i famosi comunisti col rolex, che considera quel sistema, castrista e castrante, più egualitario del nostro, fingendo di non sapere che i 3500 euro sottratti allo stipendio di ciascun medico non andranno a migliorare le condizioni del popolo cubano, ma il conto in banca dei clan al potere”; è veramente incredibile, ha ragione Gramellini, a pensare che ci sia gente che ancora crede che il sistema sanitario cubano è migliore del nostro. E’ incredibile, ma è la dura verità.

Noi abbiamo il nostro SSN ormai al collasso come ha accertato il XIX Rapporto Osservasalute 2021, curato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane tanto è vero che abbiamo accettato, disperati e in piena pandemia, aiuto offerto da Cuba attraverso la loro Brigada “Henry Reeve”, il Contingente Internazionale di medici specializzati in situazioni di catastrofe ed epidemie gravi istituito nel 2005 in risposta ai danni causati dall’uragano Katrina alla città di New Orleans negli Stati Uniti, […]

Nel 2017 il Contingente “Henry Reeve” ha ricevuto il premio Dr. Lee Jong-Wook dall’Organizzazione Mondiale della Sanità alla cerimonia della sua 70a Assemblea. In questa occasione, il presentatore del premio, IHN Yohan, che presiede la Korea Foundation for International Health Services, aveva affermato: “Il contingente Henry Reeve ha diffuso un messaggio di speranza al mondo intero”. 

Perché lo fanno? Perché è questa l’essenza di Cuba, perché ancor prima che castrista, si è sempre riconosciuta negli ideali di José Martí, espressi nella famosa frase “La patria è l’intera umanità” e questo concetto fondamentale si esprime anche nel preambolo della loro Costituzione. 

[…]

Ma la loro condizione ovviamente non vale quando si parla di difesa dei diritti umani. 

In questo momento i cubani stanno vivendo un periodo nerissimo; tra l’aggravamento del blocco economico durante la pandemia [sta portando] l’Isola è allo stremo. Eppure, il 26 settembre scorso dopo un referendum, è passato il loro nuovo diritto di famiglia che contempla la responsabilità delle famiglie con la tutela dei loro membri e tutto ciò che riguarda il matrimonio e le unioni di fatto, […]; il supporto legale per il raggiungimento della maternità/paternità attraverso uteri solidali, […] il diritto a scegliere il proprio orientamento sessuale o l’identità di genere, la convivenza e, infine, la valutazione economica del lavoro in casa e tutte le definizioni relative alla violenza in questo ambito. Alla faccia del nostro DDL Zan e della sua fine miseranda.

Ma noi? Noi come siamo messi con la difesa dei diritti umani? Cosa facciamo per i troppi morti sul lavoro dimenticati dopo un articolo in cronaca o l’intervista alla madre della vittima (con la terribile, costante domanda: “Cosa si prova in questi momenti Signora?”)? […] E infine noi, oggi, abbiamo messo in pratica i dettami della nostra Costituzione, l’abbiamo tradita o siamo stati dei leali esecutori? 

Ah, già: “i soldi sottratti ai medici non andranno a migliorare le condizioni del popolo cubano, ma il conto in banca dei clan al potere”. Ha proprio ragione Gramellini.

In questa risposta è riassunto tutto l’amore di Minà per l’isola caraibica, per i suoi ideali e per come questi vengono messi in pratica nella realtà, perché se si professa la fratellanza tra popoli è nel momento del bisogno che bisogna dimostrarla: e Cuba lo ha fatto. Questo ci fa anche capire bene come e perché un uomo come Minà a differenza di un Gramellini qualsiasi non scriveva da tempo sul Corriere della Sera, o su Repubblica, La Stampa ecc. ecc. insomma su uno dei grandi giornali italiani o non compariva da tempo sulle principali televisioni pubbliche o private italiane: perché oggi anche solo insinuare un dubbio su questioni scomode, sia in questo caso la superiorità del modello sanitario del piccolo paese socialista caraibico, sia la messa in discussione della narrazione buonissimi vs cattivissimi della guerra Russo-ucraina, non è accettabile dal sistema. Nella lotta alla propaganda filoamericana portata avanti nell’ultimo anno la voce di Minà è stata, certamente non unica, sicuramente tra le più autorevoli, e in un momento dove le voci scomode sono sempre meno quasta sua scomparsa peserà molto. Come ogni buon insegnante credo però abbia lasciato molti studenti in grado di capire e comprendere l’evoluzione degli eventi, in grado di fare massa critica, di comunicare i cambiamenti. Studenti che necessariamente dovranno riprendere il controllo di un sistema che mai come in questo momento storico sta andando verso il baratro di una nuova guerra mondiale. Mai come in questo periodo però l’informazione può giocare un ruolo fondamentale, se è pur vero che la propaganda ha sempre giocato un ruolo importante nei periodi precedenti le guerre, mai come adesso ogni singolo individuo può e deve farsi promotore dell’idea di pace, mai come adesso ognuno, se vuole, può contribuire in maniera attiva alla lotta per la pace. Mai come adesso è necessario appropriarsi dei mezzi necessari a condurre questa “battaglia dell’informazione” per tornare a essere protagonisti della storia. Lo dobbiamo ai nostri figli, e lo dobbiamo ai tanti come Gianni Minà che per una vita hanno dato voce agli ultimi del mondo, ha dato voce a chi subiva l’ingiustizia del criminale embargo americano contro il popolo cubano, a chi lottava per il diritto alla gestione delle proprie risorse in Venezuela dopo anni di colonialismo economico e finanziario, ha dato voce popoli indigeni brasiliani depredati delle loro terre, a tutti i proletari brasiliani diventati finalmente protagonisti con Lula, a Lula stesso, leader di questi milioni di lavoratori ingiustamente incarcerato. Continuare a coltivare questo tipo di giornalismo che mette prima di tutto i diseredati, i migranti, i profughi, i poveri di tutti i sud del mondo, è oggi più che mai necessario. La denuncia delle ingiustizie di un sistema capitalistico a trazione americana è oggi più che mai fondamentale per lo sviluppo dei paesi del sud del mondo. La denuncia di un’imperialismo americano con un’Europa sempre più marginale nelle decisioni cruciali è più che mai necessario per il mantenimento della pace.

Guerra e democrazia

Saggio pubblicato il 29 gennaio 2023 sul sito del Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” ( http://www.cese-m.eu/cesem/2023/01/guerra-e-democrazia/ )

Generalmente l’opinione pubblica delle democrazie occidentali tende a considerare la guerra come una conseguenza di azioni aggressive da parte di paesi antidemocratici, un prodotto esportato da questi. Di conseguenza è anche tendente a pensare che per i paesi a regime dittatoriale o dove ci siano al governo delle autocrazie, o comunque tutti quei paesi che non rientrano nei canoni della democrazia occidentale siano meglio attrezzati a condurre la guerra. Si pensa sia più facile la coercizione, l’obbligo di leva, la mobilitazione totale o parziale, la stessa organizzazione dei vertici delle forze armate, e il coordinamento tra i vertici politici e quelli militari. Insomma che questi paesi siano meglio attrezzati nella conduzione delle operazioni militari.

I fatti però dimostrano che questa idea è totalmente sganciata dall’evidenza degli eventi storici.

Nel caso specifico si prenderanno ad esempio gli eventi immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale e chiaramente gli anni del conflitto armato. In realtà la scelta della prima guerra mondiale non è a caso ma perché in qualche modo la situazione politica che portò al conflitto era molto simile a quella attuale, o perlomeno molto più simile della situazione precedente il secondo conflitto mondiale. 

Fondamentale prima di entrare nel merito dell’esempio qui proposto è però rivedere le tesi che Marx descrive nell’opera Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte in cui si riassume il colpo di stato del 2 dicembre 1852. Per la nostra analisi è interessante rivedere la descrizione marxiana del bonapartismo come, potremmo dire, categoria politica. Bonapartismo come utilizzo, o meglio, sfruttamento delle azioni, mobilitazioni, lotte, di una classe “inferiore” da parte di quella “superiore” (nello specifico per inferiore è considerata la massa proletaria già protagonista della rivoluzione del 1848, per superiore la borghesia repubblicana liberale). Gli eventi infatti videro la borghesia liberale sfruttare il proletariato per abbattere la borghesia proprietaria più reazionaria e più legata alla monarchia, per poi tornare ad opprimerlo una volta ripreso il potere, nello specifico nella figura di Luigi Bonaparte*. È la particolare situazione in cui i controrivoluzionari ottengono il potere dai rivoluzionari. Questo tipo di situazione è per natura instabile e in qualche modo chi assume il potere è paragonabile al dittatore romano della Repubblica romana, eletto in caso di stato di emergenza e posto al comando assoluto per un massimo di sei mesi.

Fatto questo necessario appunto possiamo tornare alla situazione del 1914 riprendendo in larga parte l’analisi che ne fa Domenico Losurdo in Democrazia o bonapartismo. 

Interessante per noi è come le democrazie americana e italiana superarono le resistenze delle masse popolari ad entrare in guerra. In Italia alle resistenze delle masse popolari si contrapposero le elité interventiste, sostenute intellettualmente dai vari Salvemini: per cui “le masse si muovono per istinti negativi e non per dottrine positive” quindi sono “portate a evitare sofferenza e dolore” (D. Losurdo Democrazia e bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, 1993, riprendendo G. Salvemini, “Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915” p.448); Dorso per cui: “occorre una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola quests turba di muli e di vigliacchi a morire da eroi o a vincre da trionfatori” ( D. Losurdo, Democrazia e bonapartismo riprendendo E. Forcella, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, p. xii); Croce per cui: “ i contrari alla guerra erano certamente molti e forse masse ma non contavano, perché qui si discorre di coloro che politicamente pensavano, parlavano e operavano, non potevano certo essere assecondate masse di uomini ttanagliati dalla paura della guerra, chiusi nel loro comodo e nel loro egoismo (Croce, Storia d’Italia dal 1971 al 1914, p. 266). Fondamentale per la mobilitazione però fu il quasi colpo di stato della Corona che respinse le dimissioni del governo minoritario di Salandra e lo scatenamento della piazza (con l’appoggio della polizia) contro i pacifisti.

Anche l’opinione pubblica americana era a stragrande maggioranza contraria all’intervento nel conflitto europeo cosi come, inizialmente, lo era il presidente Wilson. La situazione però cambiò in maniera repentina e nel giro di pochi mesi Wilson optò per l’intervento anche se non disponeva della maggioranza in Senato dove la maggioranza pacifista aveva bocciato la legge che permetteva di armare le navi mercantili. Wilson però avvalendosi dei sui poteri esecutivi potè ordinare l’immediata eseguibilità del provvedimento. Scrivono gli storici Carrol e Noble: “Lo strapotere di cui la presidenza poteva disporre negli affari di politica estera aveva consentito a Wilson di portare gli Stati Uniti sull’orlo della guerra senza che l’elettorato medio ne avesse alcuna coscienza. Quest’ultimo, in realtà, aveva rieletto Wilson proprio perché lo aveva ritenuto capace di preservare la neutralità della nazione americana. Il movimento pacifista, molto forte nell’elettorato femminile, aveva sostenuto la candidatura Wilson così come avevano fatto gruppi di tedeschi e di irlandesi americani, che nutrivano un profondo odio per l’imperialismo inglese. Una grossa parte dei «progressisti» wasp [i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante] del Midwest (…) avevano altresì appoggiato Wilson, nel 1916, in quanto avevano visto nel partito repubblicano il sostenitore dell’Inghilterra e della guerra (…). Entro il marzo 1917 Wilson aveva coinvolto gli Stati Uniti in un conflitto a fuoco con la Germania (Carroll e Noble, The Free and the Unfree. A New History of the United States, pp. 338 ). ”

In questi due esempi possiamo già vedere una sorta di bonapartismo soft (la definizione è di D. Losurdo).

Scriverà successivamente Cobban: “Wodrow Wilson, Clemenceau e Lloyd George furono investiti di un’autorità che in pratica equivaleva alla dittatura nelsenso romano del termine (Carroll e Noble, The Free and Unfree, 1977, p.111). 

Interessante vedere anche come le controparti tedesche soprattutto, ma anche russe, interpretarono la mobilitazione delle democrazie occidentali. Scrive il professore tedesco Moritz Julius Bonn nel resoconto del suo viaggio negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra: “nelle discussioni politiche dell’anteguerra, si è sempre detto, da parte dei difensori del sistema di governo allora dominante nell’Europa centrale, che la democrazia come forma di vita politica ha sì certi vantaggi, ma che, soprattutto in quanto democrazia parlamentare, sarebbe destinata al fallimento nella guerra. L’esperienza pratica ha dimostrato il contrario. Per quanto riguarda la compattezza politica e il perseguimento disciplinato degli obiettivi, le democrazie occidentali sono state nettamente superiori al sistema burocratico dell’Europa orientale e centrale. L’interna scissione tra direzione militare e politica, che ha paralizzato gli imperi centrali per quasi tutto il periodo di guerra, è stata superata dalle potenze occidentali ad opera di politici consapevoli dei propri obiettivi. L’ascesa di personalità forti e dotate di autonoma iniziativa, che secondo la concezione continentale avrebbe dovuto essere resa impossibile dalla democrazia, si è manifestata senza ostacoli nelle potenze occidentali, non invece in Russia, Germania o Austria, dove le poche individualità forti in grado di imporsi si sono logorate in una lotta senza fine contro gli intrighi burocratico-militari […] durante i periodi critici della guerra, i primi ministri di Inghilterra, Francia o Italia e il presidente degli Stati Uniti hanno goduto di una pienezza di poteri, in confronto alla quale la potenza di un Alessandro o di un Cesare era limitata. Nei paesi occidentali, i poteri dittatoriali conferiti sono stati in pratica molto più ampi di quelli che i monarchi hanno potuto esercitare in Russia e Germania (Bonn, Die Krisis der europäischen Democratie, 1925, pp. 9 e 63 )”.

Dello stesso avviso del professore tedesco sono però molti altri autori per Canfeld Wilson vennè “investito di poteri quasi dittatorali” (L.H. Canfield, The president of Woodrow Wilson, Prelude to a World in Crisis, 1966, p.109).

Per gli oppositori interni alla guerra non ci doveva essere pietà, così si esprimeva infatti il procuratore Generale Charles Gregori nel novembre del 1917 riferendosi ai pacifisti:

“Che Dio abbia pietà di loro, poiché essi non possono aspettarsi di riceverne da un popolo oltraggiato e da un governo vendicativo”.

Con il Sediction e Espionage Act del 1918 vennero stabilite le misure repressive per i pacifisti, le pene per qualsiasi tipo di “espressione sleale” verso il governo, l’esercito, la bandiera, la costituzione degli Stati Uniti d’America andavano da un minimo di 10 anni ad un massimo di 20.

Un esempio su tutti è quello di Eugene Debs, candidato per il Partito Socialista d’America alla presidenza nel 1912 che raccolse quasi un milione di voti, condannato nel 1918 a dieci anni di carcere per un discorso contro la guerra.

La radicalità dello stato di eccezione negli Stati Uniti si sviluppò su tutti i fronti, militare, economico, culturale e mediatico. Solo sette giorno dopo la dichiarazione di guerra Wilson forma il Comitato per la Pubblica Informazione che ogni settimana forniva 22000 colonne di “notizie”.

Peculiarità del sistema americano è anche il fatto che, come scrive Losurdo: “Per aspra che possa essere la competizione tra i due partiti e i loro leaders, essa verte sul modo di interpretare l’americanismo, senza mai mettere in discussione quest’ultimo come punto di riferimento, senza mai sollevare dubbi sul ruolo privilegiato e unico che compete, in un modo o nell’altro, agli Stati Uniti nella storia del mondo e dell’umanità”. L’estrema difesa dei principi americani, dello spirito americano, tende in modo naturale a vedere in tutto quello che viene da fuori, dall’esterno, il Male assoluto, grendo così un nemico potremmo qusi diri disumanizzato. Durante la prima guerra mondiale questo nemico è identificato con tutto quello che ha un anche insignificante legame con il mondo tedesco. E quindi viene vietata la musica tedesca, ne viene vietato l’insegnamento della lingua, anche i nomi delle città vengono cambiati se di origine teutonica. Con lo scoppio della rivoluzione di ottobre alla caccia alle streghe si aggiungono i comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti. Furono migliaia i sospettati deportati in Russia, tra l’altro per forza di cose nelle aree controllate dai controrivoluzionari bianchi. Questa pratica fu condannata, per ragioni militari non per umanità nei confronti dei malcapitati spesso ingiustamente deportati, dal ministro degli esteri britannico secondo il quale questi trasferimenti ostacolavano le operazioni militari contro in bolscevichi.

Per l’efficacia delle operazioni di epurazione del nemico interno molti in Germania possiamo dire iniziarono a studiare questo “metodo”, curiosa e al tempo stesso esplicativa è la conversazione tra Max Weber e il generale Ludendorff a conflitto terminato e riportata dalla moglie di Weber:

L: Adesso ha finalmente la democrazia da lei tanto celebrata […].

W: Crede veramente che io consideri democrazia la porcheria che abbiamo ora?

L Se parla così, forse possiamo intenderci.

W: Ma anche la porcheria che avevamo prima non era una monarchia.

L: Cosa intende lei allora per democrazia?

W: Nella democrazia, il popolo elegge come suo leader (Führer) quello in cui ha fiducia. Una volta eletto, questi dichiara: «Adesso chiudete il becco e obbedite». Popolo e partiti non possono più immischiarsi nelle sue decisioni.

L: Una tale «democrazia» può piacermi..

W: Successivamente il popolo può giudicare, e se il leader ha commesso errori, che venga pure inviato al patibolo! (Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild, 1926, p. 664).

E qui possiamo introdurre un’altra categoria politica, il cesarismo di stampo weberiano. La difesa del suffragio universale di Weber deve essere concepita in quest’ottica, per Weber questo infatti è il mezzo per l’applicazione potremmo dire perfetta del cesarismo che va poi a reprimere le masse stesse, in questo senso potremmo associare la concezione weberiana a quella del bonapartismo marxiano. In questo senso Weber vede come causa del non completo successo del cesarismo bismarkiano le istituzioni vigenti all’epoca (il dualismo tra il potere del capo del governo e il pricipio di leggitimità della monarchia ereditaria) , fallimento che sarebbe potuto essere evitato con una democrazia regolata. Per utilizzare Gramsci possiamo dire che il cesarismo di Bismark e Napoleone III è un cesarismo regressivo a differenza di quello di Cesare e Napoleone I definito progressivo, la differenza sta nel fatto che solo i secondi hanno radicalmente cambiato l’assetto politico e istituzionale del regime vigente (quaderno 13 (XXX))**.

Questo cesarismo avanzante soprattutto nei paesi anglosassoni quindi influenzerà anche il resto degli stati democratici europei, in Italia è Benito Mussolini a coglierne le prime influenze. Non più socialista ma non ancora propriamente fascista Mussolini analizza la situazione del blocco anglosassone: “Dunque è assurdo accusare il regime democratico, in quanto tale di incapacità di fronte alla guerra […]. Una democrazia tipica, invece, come quella inglese, sa fare la guerra. Saprà farla anche la più grande delle democrazie, quella americana […]. Clemenceau è l’esponente della democrazia sana, produttiva, e, quando occorre, guerriera […]. Le nazioni anche democratiche hanno a poco a poco accentrato il potere reale in pochi uomini o in un uomo solo. In un certo senso Lloyd George, Clemenceau, Wilson sono tre dittatori democratici (E. e D. Susmel, Opera Omnia, 1951, vol. 10, p. 416).”

Ma sulla necessità della sospensione del regime democratico durante lo stato di eccezione, che è la guerra, sono in molti a professarlo. Così si esprime Gaetano Mosca: “Un breve periodo durante il quale un governo forte ed onesto eserciti molti poteri ed abbia molta autorità può in qualche nazione europea essere riguardato come opportuno, perché può contribuire a preparare quelle condizioni che renderanno possibile, in un prossimo avvenire, il normale funzionamento del regime rappresentativo. Anche a Roma, nei migliori tempi della repubblica, qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura (Mosca, Elementi di scienza politica, 1953, vol. 2, p. 240 nota).”

Bene notare che soprattutto per questi autori (Mosca e Pareto nello specifico) la causa di un’impasse o comunque un possibile ostacolo alla gestione ottimale dello stato di eccezione è l’istituzione parlamentare. Così Pareto può esprimersi in merito alle riforme necessarie dopo l’ottobre del 1922: “I modi sono infiniti, lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente”. Anche in questo caso l’esempo da segire è Luigi Napoleone, il bonapartismo elevato a vero sistema di governo. Cosa che accomuna Weber, Pareto e Mosca è la necessità di utilizzare, potremmo dire in sostituzione del parlamento, il plebiscito come legittimazione, per il raggiungimento di una pura democrazia plebiscitaria come forma ottimale di governo.

Altro autore che vede questa tendenza avanzare in tutta Europa è Sorel, che così descrive il caso britannico: ““Bisogna osservare che in tutta Europa il parlamentarismo s’orienta verso un regime di potere personale esercitato da un grande uomo politico. Il fatto è notevole soprattutto in Inghilterra. Llyod George è veramente un re senza corona, e un re assai più potente di quel che lo furono gli ultimi Borboni in Francia (…). Io credo che dappertutto i costumi politici vadano modellandosi sempre più sul principio fondamentale della Costituzione [bonapartista] del 1852: tutti gli agenti del governo debbono essere responsabili verso un capo unico, il quale, a sua volta, è responsabile solo verso il popolo.”

Mentre per quanto riguarda gli Stati uniti : “il [loro] presidente è eletto direttamente dal popolo […]. I loro presidenti invocano quasi la legge suprema della salvezza comune, quando parlano in nome della nazione; il principio della dittatura è implicito nella costituzione americana. Il modo in cui si è svolta la storia degli Stati Uniti nel secolo scorso ha contribuito a persuadere i presidenti che, all’occasione, essi debbono agire come capi responsabili unicamente di fronte alla totalità del paese” (G. Sorel, “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta”, 1973, pp. 243-244).

Per concludere è interessante notare come per Weber il vero problema da risolvere nell’attuazione di un regime cesaristico è quello del successore, la maniera nella quale questo viene rimosso una volta perduta la fiducia delle masse e come insediare un altro potenziale dittatore cesaristico, un “capo fiduciario” che all’occorrenza deve immediatamente trasformarsi in un dittatore aperto. Le forme di governo migliori quindi, o per lo meno migliori nella gestione dello stato di emergenza, dovrebbero, per Weber, avere questo tipo di reattività agli eventi. 

[solo per speculare, quale sarebbe il miglior modo per risolvere questo problema in un regime pienamente democratico, se non quello che i capi di governo abbiano, o meglio i candidati a capo del governo abbiano la stessa inclinazione politica su questioni fondamentali come la politica estera, il collocamento internazionale, la politica economica (comunitaria), abbiano gli stessi vincoli (di bilancio, di rapporto debito/PIL, di sforamento del deficit), ecco non sarebbero in questo caso pienamente intercambiabili l’uno all’altro? Non si sarebbe risolto il problema descritto da Weber?] 

All’inizio del testo si parlava di un parallelo tra la situazione del 1914 e quella attuale; è chiaro che tantissime sono le differenze a livello politico, di avanzamento tecnologico, e soprattutto i possibile mutuo annichilimento sulla base degli armamenti in possesso dalle grandi potenze attuali, però le forme della gestione del potere sono simili, la democrazia parlamentare italiana, con i dovuti distinguo è simile a quella del 1914, mentre la monarchia parlamentare inglese e il presidenzialismo americano sono praticamente identiche. La Russia di Putin sicuramente è molto diversa ma mantiene quel mix di culture e popoli diversi dispersi su un territorio enorme e una forma più o meno autoritaria di gestione del potere, anzi forse è la nazione che al momento più si avvicina ad una democrazia plebiscitaria pura. Diverso il caso della Cina, potenza emergente con un sistema di potere estremamente burocratizzato, rigido, ma certamente in grado di reagire in maniera veloce e efficacie al possibile verificarsi di situazioni di emergenza. 

La tesi qui esposta non è sull’eventualità dell’emergere di uno più Giulio Cesare in Europa ma il fatto che sono le stesse forme istituzionali che potrebbero permetterlo, perché già accaduto. Certo al momento i governi, per lo meno quello italiano, gode dell’appoggio parlamentare, basti vedere l’approvazione degli aiuti fino a fine 2023 a larga maggioranza. Ma questi aiuti, anche nell’opinione pubblica, non sono visti come un diretto coinvolgimento. In qualche modo la situazione è ancora vista con distacco, sono eventi che comunque accadono a diverse migliaia di chilometri dai nostri confini nazionali. Ma cosa potrebbe accadere in caso di escalation? Perché il rischio c’è e non può essere taciuto. In caso di reale coinvolgimento nel conflitto ci sarebbe una maggioranza di italiani favorevoli all’impegno militare sul campo (con perdite, sicuramente anche gravi, di uomini e mezzi)? E nel caso contrario cosa accadrebbe? Gli impegni con la NATO non sono certo revocabili dalla sera alla mattina, o con un semplice cambio di governo! Ecco forse sta qui il nodo della questione, noi italiani siamo abituati a cambi repentini di governo e forse pensiamo che anche in questo caso basterebbe far cadere un governo e metterne un altro per cambiare posizione in politica estera, ma non è così. Questi impegni sono vincolanti, il Patto atlantico non è democratico, non si può scegliere se intervenire o meno in caso di un attacco esterno (art. 5). Quindi la domanda da porsi è questa: è pronto il popolo a fare sacrifici, anche molto gravi, per mantenere l’integrità territoriale dell’Ucraina? A rinunciare a comodità ormai date per acquisite? Nei palazzi se le sono poste queste domande? Al momento mi sembra come se stessimo continuamente temporeggiando in attesa di un qualche messia che cali d’alto a risolvere il conflitto, e questo mi sembra non solo in Italia ma in anche in Germania e Francia. 

Sarebbe auspicabile a questo punto una ripresa dei negoziati di pace prima che la situazione precipiti.

Una cosa comunque sembra abbastanza evidente, la macchina propagandistica (mettere link articolo precedente su propaganda in occidente) messa in atto nei paesi occidentali è molto simile a quella del 1914, il nemico russo orami è stato creato, così come tutto quello che è russo viene demonizzato, dai corsi vietati alle università, ai balletti e concerti di musica classica annullati, al cambio di nomenclatura delle città,vedi Kyiv… speriamo solo che gli esiti non siano gli stessi di quel tragico periodo.

*è importate ricordare che Marx per 18 brumaio di Luigi Bonaparte intende la “farsa” di questo colpo di stato, rispetto al vero 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799), quando il generale Napoleone Bonaparte rovesciò il direttorio. Da qui la famosa frase di Marx: “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”.

**per gramsci anche i governi Depretis, Crispi e Giolitti, csì come il governo laburita MacDonald, rappresentano forme di cesarismo.

Sulla criminalizzazione della guerra: un percorso difficile

Saggio publicato l’ 11 maggio 2022 sul sito del Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” ( http://www.cese-m.eu/cesem/2022/05/sulla-criminalizzazione-della-guerra-un-percorso-difficile/ )

La fine della Seconda guerra mondiale porta con se grandi cambiamenti, è in questo periodo che si afferma l’idea che la guerra di aggressione debba essere considerata un crimine internazionale e che quindi fosse necessario «introdurre la giustizia penale nell’ordinamento internazionale per punire, assieme ai responsabili di ogni altro crimine di guerra, anche i responsabili di una guerra di aggressione» (Zolo D., La giustizia dei vincitori: Da Norimberga a Baghdad). Vengono quindi istituiti i tribunali penali internazionali di Norimberga e Tokyo dove vengono processati e condannati a vario grado gerarchi tedeschi e giapponesi.

La criminalizzazione della guerra di aggressione viene poi sancita nella Carta delle Nazioni Unite dove all’art. 39 si dice: «il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» e nello specifico all’art. 42 si enuncia che: «se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 [misure non implicanti l’uso della forza armata] siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite». 

Va de se che grazie al potere di veto che le cinque potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale si sono attribuite in seno al Consiglio di Sicurezza renda questi articoli nulli nei loro confronti. 

È in questo modo che sono stati compiuti impunemente gli interventi in americani in Vietnam, Guatemala, Libano, Cuba, Santo Domingo, Grenada, Libia, Panama, tra il 1956 e il 1986, così come quelli sovietici in Afghanistan e Est Europa tra il 1956 e 1968.

La «giustizia dei vincitori», come la definisce Zolo, dopo la lunga pausa della guerra fredda, si manifesta di nuovo negli anni Novanta alla fine delle guerre jugoslave con l’istituzione del tribunale internazionale dell’Aja dove vengono giudicati i vertici ritenuti responsabili, e poi di nuovo alla fine della seconda guerra in Iraq, culminata con l’impiccagione di Saddam Hussein. 

Sempre seguendo Zolo possiamo definire l’azione in Jugoslavia come «guerra umanitaria» e la seconda in Iraq «guerra preventiva».

Seguendo il paradigma della «giustizia dei vincitori» nessuno è stato giudicato per i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e per i bombardamenti a tappeto delle città tedesche, a conflitto ormai terminato, che hanno provocato centinaia di migliaia di vittimi civili, così come nessun tribunale ha mai aperto un procedimento per i responsabili dei 78 giorni di ininterrotti bombardamenti sulla Serbia, Vojvodina, Kosovo, o sui 42 giorni di bombardamenti sull’Iraq durante la prima guerra del golfo, nei quali è stato utilizzato lo «stesso quantitativo di esplosivo usato durante tutto il secondo conflitto mondiale» (Zolo D., I signori). Nessuno inoltre è mai stato giudicato per l’utilizzo di napalm e fosforo bianco durante l’attacco a Falluja durante la seconda guerra del Golfo né per l’attacco russo in Cecenia (vedi inchiesta Rainews24 di Sigfrido Ranucci, Fallujah. La strage nascosta).

Scrive sempre Zolo: 

«Mi sembra dunque ragionevole denunciare […] il «sistema dualistico» della giustizia internazionale. C’è una giustizia su misura per le grandi potenze e le loro autorità politiche e militari: esse godono di un’assoluta impunità sia per i crimini di guerra sia, e soprattutto, per le guerre di aggressione di cui in questi anni si sono rese responsabili, mascherandole come guerre umanitarie per la protezione dei diritti umani o come guerre preventive contro il “terrorismo globale”. Dal 1946 ad oggi non è mai stato celebrato un solo processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per crimini di aggressione. E c’è una “giustizia dei vincitori” che si applica agli sconfitti, ai deboli e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l’omertà di larga parte dei giuristi accademici, la complicità dei mass media e l’opportunismo di un numero crescente di sedicenti “organizzazioni non governative”, in realtà al servizio dei propri governi e delle proprie convenienze» (Zolo D., I signori).

Ora è in questa ottica che torna di attualità la riflessione di Schmitt: non essendo più limitata da nessuna regola la guerra torna ad essere “giusta”, in questo senso è come se si fosse fatto un passo indietro di diversi secoli. Se si torna al bellum justum alla justa causa belli di De Vitoria  se l’aggressore diventa criminale la guerra può allora essere illimitata: «una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento». (Zolo D., I signori, ripreso da Schmitt. C., Der Nomos der Erde, cit., p. 219)

Se l’aggressore non è più un justus hostis allora è un criminale, che non ha diritti, e contro il quale è possibile fare una guerra di sterminio, diventa un hostis generis humani.

È da notare che il prodromo di questo nuovo paradigma si ha già con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 contro la Germania guglielmina: «entrando in guerra contro la Germania gli Stati Uniti avevano annullato i concetti non discriminatori di guerra e di neutralità e si erano attribuito il potere di decidere su scala internazionale quale parte belligerante avesse ragione e quale torto, trasformando il conflitto in una “guerra civile mondiale”», quindi preconizzava Schmitt e sintetizza Zolo che «la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra globale, asimmetrica, “giusta” e “umanitaria”, ma sarà una guerra capace di una discriminazione abissale del nemico, poiché assumerà la forma di una permanente azione di polizia: una polizia internazionale, ovviamente controllata dagli Stati Uniti, che userà armi di distruzione di massa contro i perturbatori della pace, senza più alcuna distinzione tra truppe regolari e milizie irregolari, e fra militari e civili» (Zolo D., introduzione a Il concetto discriminatorio di guerra di Schmitt C.) è importante notare due fattori nel ragionamento di Schmitt: primo, la limitazione delle guerre nel Settecento e Ottocento non è intesa come frequenza e neanche come violenza in se ma nel senso che queste avevano un regolamento, potremmo dire un codice: la guerra tra stati era sempre qualcosa di diverso dalla pirateria o dall’omicidio, questo perché gli Stati erano i soggetti del diritto internazionale, con proprio diritto, onore e dignità; secondo, da questo schema erano esclusi tutti i conflitti che si svolgevano negli spazi coloniali, quindi al di fuori dello spazio europeo. Per Zolo Schmitt «sembra pensare che il diritto bellico sia il solo strumento in grado di limitare, razionalizzare e umanizzare la guerra, alla condizione [però] che non pretenda di cancellarla in nome di un astratto pacifismo universalistico». (Zolo D., introduzione Il concetto).

La fine della guerra fredda e l’avvento del mondo unipolare hanno infine confermato le ipotesi di Schmitt quando profetizzava «l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neoimperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali”, che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile» (Zolo D., Schmitt C., in Teoria del partigiano). D’altro canto hanno smentito quelle di Kelsen che vedeva nella creazione di istituzioni sovranazionali e di un ordinamento giuridico globale gli strumenti per garantire una pace stabile e universale. 

Veniamo quindi ad affrontare nel particolare le teorie giuridiche di Kelsen, innanzitutto per Kelsen esiste un solo ordinamento giuridico che include sia il diritto interno che quello internazionale. Partendo dalle tesi di Kant cerca di «eliminare dalla scienza del diritto ogni elemento soggettivo per farne una conoscenza unitaria e oggettiva e cioè “pura”».

Inoltre «inteso come ordinamento giuridico originario, esclusivo e universale, il diritto internazionale è perciò incompatibile con l’idea della sovranità degli Stati nazionali e territoriali e dei loro ordinamenti giuridici: questa idea deve essere radicalmente rimossa» (Zolo D., I signori). In questo passaggio vediamo tutta l’opposizione tra il pensiero di Kelsen e Schmitt, perché mentre il primo nella crisi (e fine) dello jus publicum europeaum vedeva l’opportunità di rimuovere il concetto di sovranità, quello che era il maggiore ostacolo alla creazione di una «cosmopolis capace di assicurare una pace perpetua», Schmitt vedeva il «rischio della perdita delle maggiori conquiste della scienza giuridica moderna» (Zolo D., introduzione Il concetto). E ancora:

«per Schmitt il progetto cosmopolitico non è che la suprema neutralizzazione della sovranità, la negazione utopica della sua essenza polemica, l’illusione irenistica che gli uomini si possano dare un ordine politico prescindendo dalle loro profonde differenze, dalle loro irrazionali paure e feroci ostilità. E ignorare che lo Stato non è altro che l’organizzazione del pregiudizio contro altri, inconciliabili pregiudizi» (Zolo D., La sovranità: nascita, sviluppo e crisi di un paradigma politico moderno).

Per Kelsen la supremazia del diritto internazionale su quello statuale va ricercata già nell’antica idea teologica della “civitas maxima” idea presente nella nozione di “imperium romanum” già prima della nascita del diritto internazionale.

Scrive Kelsen: «come per una concezione oggettivistica della vita il concetto etico di uomo è l’umanità, così per la teoria oggettivistica del diritto il concetto di diritto si identifica con quello di diritto internazionale e proprio perciò è in pari tempo un concetto etico», e continua «solo temporaneamente e nient’affatto per sempre l’umanità contemporanea si divide in Stati, che si sono formati del resto in maniera più o meno arbitraria. La sua unità giuridica e cioè la “civitas maxima” come organizzazione del mondo: questo è il nocciolo politico del primato del diritto internazionale, che è al tempo stesso l’idea fondamentale di quel pacifismo che nell’ambito della politica internazionale costituisce l’immagine rovesciata dell’imperialismo» (Zolo D., La giustizia dei vincitori., citando Kelsen, “Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts“, cit., trad. it. p. 468), il paradosso nella concezione kelseniana è l’opposizione all’imperialismo e alla logica di potenza delle concezioni individualistico-statuali riprendendo le nozioni di “imperium romanum” e “civitas maxima”. Inoltre cercando di integrare la morale, l’economia e la politica sotto un’organizzazione globale dell’umanità «ripropone nel ventesimo secolo una dottrina illuministica e giusnaturalistica risalente all’Europa del Settecento» (Zolo D., I signori). Prevedendo nel modello la possibilità di sanzioni e mezzi di coercizione Kelsen fa notare che trascurando la dottrina del “iustum bellum” i teorici del diritto internazionale moderno negano la natura giuridica stessa del diritto internazionale. Kelsen altresì riconosce la validità della guerra giusta come strumento coercitivo per difesa o reazione quindi in caso di “iusta causa belli”, mentre la esclude totalmente al di fuori di questo caso, quindi per cui la «mancanza di un’istanza giudiziaria che accerti l’iniziale violazione del diritto internazionale e autorizzi l’atto sanzionatorio della guerra è una grave carenza dell’ordinamento internazionale» (Zolo D., I signori). Anche in questo caso si nota un paradosso tra il richiamo agli ideali pacifisti e antimperialisti e l’assunzione del concetto di guerra giusta nell’ordinamento giuridico internazionale. 

Pur riconoscendo l’uguaglianza di tutti gli Stati Kelsen non condanna il privilegio concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza creando anche in questo caso un certo paradosso con l’idea iniziale, e anche con la concezione di uno stato federale mondiale a cui Kelsen si rifà per arrivare alla pace perpetua. In effetti lo stesso Kelsen riconosce la difficoltà di arrivare a tale unione con metodi democratici, ed è per questo che una delle condizione è che «sia il risultato di un lungo processo storico e non di una rivoluzione» . Possiamo pensare che l’ottimismo di Kelsen durante il secondo dopoguerra fosse anche dato dalla situazione per cui globalmente si erano venute a creare tre-quattro grandi potenze per cui poteva sembrare più semplice se non il progetto di uno stato federale mondiale per lo meno il buon funzionamento di una nuova organizzazione mondiale per il mantenimento della pace, concretizzatosi nel suo progetto per una Lega permanente per il mantenimento della pace, una sorta di miglioramento della Società delle Nazioni con una corte di giustizia internazionale come organo principale (al posto del Consiglio). Inoltre per Kelsen, e quindi al contrario di Grozio, anche gli individui sono direttamente vincolati alle norme del diritto internazionale e esposti alle sua sanzioni, per cui prevedeva che «la Corte dovrà dunque non soltanto autorizzare l’applicazione di sanzioni collettive ai cittadini di uno Stato in base ad una loro “responsabilità oggettiva”, ma dovrà anche sottoporre a processo e punire singoli cittadini personalmente responsabili di crimini di guerra. E gli Stati saranno obbligati a consegnare alla Corte i loro cittadini incriminati. Essi potranno essere sottoposti a sanzioni, inclusa a certe condizioni la pena di morte, anche in violazione del principio della irretroattività della legge penale, alla sola condizione che l’atto, al momento del suo compimento, fosse considerato ingiusto dalla morale corrente, anche se non vietato da alcuna norma giuridica»(Zolo D., I signori). 

Pur prevedendo quindi il giudizio per i singoli cittadini Kelsen criticò fortemente l’istituzione dei tribunali internazionali alla fine della Seconda guerra mondiale che non prevedevano la partecipazione dei rappresentanti degli stati neutrali, e per lo più competente a giudicare solo i crimini dei nazisti, dei vinti. Cosi sintetizza Zolo: «la punizione dei criminali di guerra, afferma Kelsen, dovrebbe essere un atto di giustizia e non la continuazione delle ostilità con strumenti formalmente giudiziari ma in realtà rivolti a dare soddisfazione ad una sete di vendetta. Ed è incompatibile con l’idea di giustizia che solo gli Stati vinti debbano essere obbligati a sottoporre i loro cittadini alla giurisdizione di una Corte internazionale per la punizione dei crimini di guerra. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto trasferire la giurisdizione sui propri cittadini che avessero violato le leggi di guerra al Tribunale di Norimberga, che avrebbe dovuto essere un’assise indipendente e imparziale e non una corte militare o un tribunale speciale. E non c’era alcun dubbio, per Kelsen, che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale. Solo se i vincitori sottomettono se stessi alla medesima legge che intendono imporre agli Stati sconfitti, ammonisce Kelsen, è salva la natura giuridica, e cioè la generalità, delle norme punitive ed è salva l’idea stessa di giustizia internazionale» (Zolo D., I signori). 

Se vogliamo l’idea di Kelsen si realizzò con la nascita della Corte penale internazionale il primo luglio del 2002, con l’entrata in vigore del suo Statuto; infatti prerogativa della Corte è proprio di giudicare i singoli individui, e non Stati, accusati di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e lo stesso crimine di aggressione (art.5, par. 1 dello Statuto di Roma) commessi sul territorio da parte di uno o più residenti di uno stato parte. 

Ora, anche se è possibile giudicare il cittadino di uno Stato non facente parte dell’organizzazione, questo Stato non è tenuto ad estradare il proprio cittadino accusato dalla stessa e ad oggi non esistono mezzi coercitivi per giudicare cittadini di Stati non membri. Lo Statuto, anche se riconosce il crimine di aggressione all’art. 5 al comma 2 stabilisce che la Corte «eserciterà la giurisdizione sul crimine di aggressione solo dopo che sia stata adottata una norma che, nel rispetto degli articoli 121 e 123, definisca il crimine di aggressione e indichi le condizioni in presenza delle quali la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione su tale crimine». Ad oggi la corte conta 123 Stati membri, ma tra questi non figurano Stati Uniti, Russia e Cina, rendendo di fatto l’organizzazione un’ “anatra zoppa”.

Per concludere questa analisi, e per completezza, è necessario per lo meno accennare al contributo di Bobbio alla riflessione. In questa epoca dove la guerra potrebbe sfociare in un conflitto nucleare devastante per tutta l’umanità per Bobbio vengono a cadere tutte le concettualizzazioni che giustificavano i conflitti armati, l’epoca di Hegel o Nietzsche è superata dalle tecniche di guerra attualmente disponibili, «la guerra moderna è puramente e semplicemente un fenomeno irrazionale e distruttivo, che non offre nessun vantaggio dal punto materiale, civile o tecnico-scientifico e che è privo di qualsiasi giustificazione morale» (Zolo D., I signori).

Scrive sempre Zolo a proposito delle idee di Bobbio presenti in Il problema della guerra e le vie della pace: «Bobbio è dunque severamente critico anche della dottrina etico-teologica del “iustum bellum“, nella quale vede non un tentativo di sottoporre la guerra a regole morali ma, nella sostanza, un cedimento morale alle ragioni della guerra. La teoria della “guerra giusta” – scrive Bobbio in un saggio del 1966 – era già stata messa in crisi dall’apparire della guerra moderna. E lo scatenamento della guerra atomica le ha dato il colpo di grazia». In definitiva per Bobbio già a partire dagli anni Sessanta la teoria del “iustum bellum” non era già più applicabile.

La dottrina della guerra giusta, quindi, anziché riuscire nell’intento di «far vincere chi ha ragione» è stata usata per «dar ragione a chi vince». Neppure la legittimità morale della guerra di difesa di uno Stato aggredito da un altro Stato, argomento centrale del “ius ad bellum“sopravvive in epoca nucleare. La stessa distinzione fra guerra di difesa e guerra di offesa viene a cadere. Se vengono usate armi nucleari «la guerra di difesa in senso stretto ha perduto ogni ragion d’essere». 

Mentre con la teoria della guerra giusta e dello “ius belli” la guerra era un mezzo per attuare il diritto, con la guerra moderna si torna all’hobbessiano stato di natura, la guerra ora è «antitesi del diritto». Con queste premesse Bobbio formula il suo «pacifismo giuridico» che così descrive sempre in Il problema della guerra e le vie della pace:

«Il ragionamento che sta alla base di questa teoria è di una semplicità e di una efficacia esemplari: allo stesso modo che agli uomini nello stato di natura sono state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all’uso individuale della forza e poi l’attribuzione della forza ad un potere unico destinato a diventare il detentore del monopolio della forza, così agli stati, ripiombati nello stato di natura attraverso quel sistema di rapporti minacciosi e precari che è stato chiamato l’equilibrio del terrore, occorre compiere un analogo passaggio dalla situazione attuale di pluralismo di centri di potere alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che abbia nei confronti dei singoli stati lo stesso monopolio della forza che ha lo stato nei confronti dei singoli individui». 

Anche Bobbio come Kelsen (di cui era amico personale) vuole superare il sistema degli Stati sovrani, il sistema di Vestfalia, per arrivare ad uno stato mondiale, anche se è forse più corretto dire seguendo Zolo che Kelsen «interpreta Kant in chiave hobbesiana» cioè egli vuole assegnare al «federalismo kantiano il significato di un vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stato nazionali e di costruzione di uno stato mondiale». Condizione per arrivare a ciò è la sottoscrizione da parte di tutti gli Stati di un “pactum societatis” e di un “pactum subjectionis” dove si attribuisce ad un organismo terzo il potere di regolare coattivamente i loro rapporti e le controversie. Come Kant chiarisce che gli Stati devono necessariamente essere delle Repubbliche se non delle democrazie in senso compiuto.

Bobbio quindi vede nella nascita delle Nazioni Unite un primo passo verso la realizzazione del suo pacifismo giuridico; anche se ancora manca il requisito del “pactum subjectionis”, afferma che la nuova organizzazione è comunque un grande passo avanti per l’umanità. Bisogna qui ricordare che queste teorizzazioni di Bobbio risalgono alla sua produzione degli anni ’60, e quindi all’alba della nuova era atomica, e anche per lui il progresso più importante rispetto all’ordinamento della Società delle Nazioni era l’inclusione nelle nuove Nazioni Unite degli articoli 42 e 43.

Profetiche risultano allora le sue conclusioni che a distanza di 50 anni risultano ancora attuali: «Oggi il vecchio e il nuovo coesistono: il vecchio ha perso legittimità rispetto alla lettera e allo spirito della Carta delle Nazioni Unite, ma il nuovo o non è stato compiutamente realizzato o gode di scarsa effettività. Così, ad esempio, l’art. 43, che prevedeva l’obbligo degli Stati membri di mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza le forze armate necessarie per prevenire e reprimere le violazioni della pace, non è mai stato applicato ed è caduto in desuetudine. I due sistemi convivono perciò l’uno accanto all’altro, agendo uno indipendentemente dall’altro e, spesso, uno contro l’altro». 

Rispetto a tutta questa costruzione teorica risultano però per lo meno ambigue se non del tutto incoerenti le giustificazioni portate da Bobbio per l’intervento americano durante la Prima guerra del Golfo, vista come una “guerra giusta” anche se classificata come “uso legittimo della forza” e anche se non direttamente autorizzata dalle Nazioni Unite come disposto dal capitolo 7; a sua giustificazione scrive: «la risposta alla violazione del diritto internazionale non è stata affidata al diritto tradizionale, e sinora sempre di fatto applicato, dell’autotutela, ma è stata «autorizzata», come si è espresso pubblicamente il Segretario generale delle Nazioni Unite, e ha avuto un principio di giustificazione da un’autorità superiore ai singoli Stati, tanto da poter essere chiamata «legale», cioè conforme al diritto costitutivo del supremo organo delle Nazioni Unite. Questo fatto potrebbe rappresentare un passo avanti in quel processo di formazione di un potere comune al di sopra degli Stati, e quindi di trasformazione del sistema internazionale, di cui la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, pur nella sua potenzialità ancora non pienamente dispiegata, rappresenta una tappa» (Conf. Bobbio, Una guerra giusta?).

In effetti come scrive Zolo «il Consiglio di sicurezza si è limitato in questi decenni a distribuire delle letters of marque o «lettere di corsa», e cioè delle deleghe in bianco offerte alle grandi potenze che si mostravano interessate a condurre operazioni militari di peace-enforcing, o esigevano imperiosamente di farlo. La patente di legalità internazionale che di volta in volta è stata concessa ha semplicemente trasformato, per così dire, i pirati in corsari, in privateers» ( vedi interventi in Somalia, Ruanda, Haiti, Bosnia-Herzegovina, Kosovo) (Zolo D., La giustizia dei vincitori); in questi casi il Consiglio di Sicurezza non ha effettuato nessun controllo, ha anzi legittimato la condotta delle grandi potenze compreso l’utilizzo di armi di distruzione di massa come i fuel-air explosive e le daisy-cutter. Un altra grave mancanza della Carta è che non esiste una definizione chiara di guerra di aggressione, si legge all’art. 51: «nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale». In teoria questo impedirebbe un’azione preventiva quindi, salvo poi che soprattutto Stati Uniti e Israele abbiano interpretato la nozione di autodifesa in modo estremamente allargato facendo rientrare i loro interventi all’interno del concetto. Anche la risoluzione 3314 del dicembre 1974 non chiarisce il concetto, oltre al fatto che non essendo stata emanata dal Consiglio ma dall’Assemblea non è vincolante. Sintetizza a tal proposito Cassese che le grandi potenze: «intendono conservare, in sede di concreta applicazione di quella disposizione, un ampio margine di libertà di azione sia a titolo individuale, sia a titolo collettivo attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La definizione di “aggressione” è rimasta sospesa in una sorta di stato di “quiescenza” sia per quanto riguarda la sua qualificazione come illecito dello Stato, sia come crimine internazionale di un individuo» (Cassese A., Lineamenti di diritto internazionale penale) Per Gaja addirittura la criminalizzazione della guerra di aggressione non ha avuto sviluppi significativi in termini normativi all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale e infatti «dal 1946 ad oggi non è stato mai celebrato alcun processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per presunti crimini di aggressione, e ciò malgrado il fatto che siano indiscutibilmente numerosi i casi in cui gli Stati hanno compiuto atti di aggressione, e che in relazione ad alcuni di essi lo stesso Consiglio di Sicurezza abbia espressamente riconosciuto la sussistenza di un atto di aggressione da parte di uno Stato», nonostante ci sono stati molti casi di aggressione. 

Vediamo nello specifico il caso dell’attacco NATO del marzo 1999 contro la Jugoslavia. Innanzitutto l’attacco fu deciso senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza e condannato da Russia, Cina e India. Anche se il Tribunale dell’Aja, grazie alla sua natura speciale, poneva sullo stesso piano giuridico gli aggressori e gli aggrediti (proprio per superare, come aveva fatto notare Kelsen, la natura sbagliata del tribunale di Norimberga che poteva giudicare solo i nazisti) non si è mai arrivati ad un’incriminazione degli aggressori (che ricordiamo in questo caso erano i membri NATO). 

In primis, il Tribunale dell’Aja fu fortemente voluto e finanziato dagli Stati Uniti; secondo, durante la guerra in Bosnia si era stretta una forte collaborazione giudiziaria fra Procura Generale del Tribunale e le forze NATO che «svolgevano funzioni di polizia giudiziaria, compiendo attività investigative, ricercando le persone incriminate e procedendo al loro arresto per conto del Tribunale», e questo sia prima che dopo l’aggressione del marzo 1999; terzo, la Procura Generale, grazie al suo Statuto, ha potuto ignorare le «violazioni del diritto internazionale di guerra durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti nel corso di oltre diecimila missioni d’attacco da parte di circa mille aerei alleati» (Zolo D., La giustizia) per la quale il Tribunale aveva piena competenza giuridica. 

Furono presentate tre denunce formali da parte di una delegazione di parlamentari russi, dal governo di Belgrado, e da alcuni giuristi canadesi guidati da Michael Mandel, tutte furono archiviate. Le denunce in particolare riguardavano: l’attacco alla televisione di Belgrado del 23 e 24 aprile 1999, che causò venti morti tra giornalisti e operatori; l’uso di circa 1400 bombe a grappolo (cluster bomb); l’uso di proiettili a uranio impoverito sganciati dai bombardieri A10 tank-busterin dotazione agli Stati Uniti, come ammesso dallo stesso Generale della NATO George Robertson. 

La Procura giustificò l’archiviazione affermando che la NATO «non avrebbe mai usato la forza per provocare “direttamente o indirettamente vittime civili”, all’assenza di un’intenzionalità dolosa e al carattere del tutto occasionale di alcuni errori tecnici o di alcune carenze di informazione». Nel giudicare l’intera vicenda Cassese afferma che è indubbia l’esistenza di una “sindrome di Norimberga”, una tendenza della giurisdizione penale internazionale a perpetuare il modello della “giustizia dei vincitori”.

Per quanto riguarda invece i territori occupati in seguito ad un aggressione, a questi si applica la disciplina dell’occupazione militare regolata dalla quarta convenzione di Ginevra del 1949, «l’occupazione di un territorio è una fattispecie di diritto internazionale che prescinde dal carattere legale o, invece, criminale dell’uso della forza che ha portato all’occupazione del territorio», questa dottrina si richiama al “principio di effettività”, per cui è la forza la sua fonte di legittimazione. Per cui «sono le grandi potenze che “fanno” il diritto internazionale e la scienza del diritto internazionale ha il compito di formalizzare come nuove regole le decisioni via via assunte dalle grandi potenze. Da questo punto di vista “realistico” è ovvio che una potenza che abbia invaso un territorio con la forza delle armi, e lo abbia posto stabilmente sotto il proprio controllo, esercita legittimamente i diritti che la quarta Convenzione di Ginevra accorda ai vincitori nei confronti dei vinti». La Convenzione di Ginevra detta anche le norme sui diritti e doveri degli occupanti nei confronti dei civili (articoli dal 47 al 78); particolarmente rilevante è l’art. 64 secondo il quale possono essere abrogate leggi penali e istituirne di nuove, da parte degli occupanti, nel caso in cui essi le ritengano pericolose/necessarie per la propria sicurezza, possono inoltre istituire corti penali contro gli occupati. Scrive Zolo a tal proposito: «ci troviamo dunque di fronte a un processo giuridico nel quale, per una sorta di magica transustanziazione normativa, il fatto che l’aggressione armata abbia avuto successo, dando luogo all’occupazione militare del territorio degli aggrediti, produce una sanatoria automatica del “crimine supremo” commesso degli aggressori e ne rende legittimi i risultati. Si tratta di una incoerenza giuridica che il richiamo al “principio di effettività” non dovrebbe minimamente sanare o attenuare, purché non si adotti la massima, improntata a un radicale realismo giuridico, ex iniuria oritur jus».

In conclusione ad oggi il diritto internazionale e quanto mai “evanescente”, come dice Zolo citando Lauterpacht «inidoneo a esercitare effettive funzioni normative e regolative. Lo jus contra bellum non si è rivelato più efficace dello jus belli». E il motivo principale sta proprio nella genesi delle Nazioni Unite, nei diritti esclusivi che le potenze vincitrici si sono arrogate durante la sua costituzione, e anche , se vogliamo, nella decisa opposizione a perdere qualsivoglia delle prerogative date dalla propria legittima sovranità. 

Citando Radhabinod Pal, giudice indiano del Tribunale di Tokyo, e ancora oggi attuale: «solo la guerra persa è un crimine internazionale».

Informazione e propaganda nel mondo occidentale

Saggio pubblicato sul sito del Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” il 20 aprile 2022 ( http://www.cese-m.eu/cesem/2022/04/informazione-e-propaganda-nel-mondo-occidentale/ )

Ogni guerra ha bisogno di una giustificazione, è infatti innegabile come l’opinione pubblica, di tutti i paesi del mondo, democratici o meno, è per sua natura restia a giustificare l’intervento armato del proprio paese. Vuoi per mero egoismo, il fatto di poter essere chiamati alle armi e rischiare la propria vita, vuoi per una sorta di empatia nei confronti del popolo attaccato, vuoi per una sincera opposizione alle decisioni del proprio governo. C’è quindi il bisogno per i governati di fare leva sui sentimenti più profondi del proprio popolo per convincerlo a intraprendere un operazione militare che il più delle volte non prevede una chiara data di conclusione, un conflitto di una durata indeterminata e dai costi non quantificabili preventivamente. Il casus belli deve quindi provocare nella popolazione un vero sdegno, una condizione davanti alla quale è impossibile tirarsi indietro, e soprattutto deve creare un nemico disumano; una disumanizzazione dell’avversario per la quale il suo annientamento è giustificato dal fatto di essere dalla parte giusta della barricata, dalla parte dei buoni. 

E questo è vero soprattutto nell’epoca contemporanea, a partire dalle guerre successive alla Seconda Guerra Mondiale, e in particolar modo a quelle degli ultimi tre decenni in cui l’utilizzo dei mass-media è diventato centrale nell’influenzare l’opinione pubblica. Va da se che la manipolazione delle informazioni è divenuta centrale in questo periodo. Dall’11 settembre in poi nel nome della “sicurezza collettiva”, del “bene comune” e degli “interessi di tutti” si sono potute giustificare azioni estreme in contrasto con ideali e cultura dominanti, «azioni che in altri tempi sarebbero state inammissibili, ma che nel clima prodotto dalla “guerra al terrorismo” diventano quasi ordinarie, rientrano in una routineaccettata dall’opinione pubblica in quanto necessaria» (Chiais M., Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa, Lupett-Editori di comunicazione, Milano, 2007, p.17)

Se è vero che un fatto esiste solo nel momento in cui viene comunicato, amplificato e “distribuito” alla popolazione, la sua negazione e inesistenza si ha con il suo occultamento, che ne nega l’effetto. In quest’ottica allora possiamo interpretare l’estromissione dei giornalisti dai territori in cui è in atto un operazione bellica, non avere notizie da comunicare nega l’esistenza stessa dell’evento bellico; e in questo furono maestri gli USA che già nel 1983 a Grenada e nel 1989 a Panama negarono l’accesso ai giornalisti nei teatri operativi, per neutralizzare effetti negativi sul «piano della legittimità e dell’approvazione internazionale» (Chiais M. 2007:23)

Durante la prima Guerra del Golfo invece la manipolazione delle informazioni da parte del governo americano si avvalse di un metodo potremmo dire opposto a quello utilizzato per le operazioni a Grenada e Panama. In questo caso infatti si ebbe quella che viene definita “manipolazione per inondazione di notizie”, i giornalisti infatti furono sommersi da documenti filmati e fotografici «ed ebbero la netta sensazione, almeno per i primi tempi, di essere veramente di fronte ad una struttura impegnata a fornire massima collaborazione» , quando in realtà questa collaborazione di facciata non era altro che «un meccanismo di gestione dell’informazione preordinato a monte dagli esperti di comunicazione del Pentagono e della CIA, con l’aiuto di agenzie di Pubbliche Relazioni al soldo della famiglia reale kuwaitiana in esilio e della stessa amministrazione statunitense» (Chiais M. 2007:28). Questa massa di informazioni selezionate servirono a creare l’immagine di una guerra umanitaria, giusta. Il controllo, anche fisico dei giornalisti (irregimentati in strutture controllate e invalicabili), durante questo periodo di guerra fece successivamente coniare, per definirlo, il termine “giornalismo embedded” per descriverne la dipendenza rispetto al potere militare. Esempio eclatante di questa nuova guerra mediatica fu l’allestimento del centro operativo presso il Dhahran International Hotel per i 1600 giornalisti accreditati, unico dettaglio era che prima di «ottenere un bagde di accredito, erano tenuti a firmare delle “regole di comportamento” tali da limitare pesantemente ogni libertà di azione e possibilità di svolgere realmente la propria attività». (Chiais M. 2007:31)* 

Chiaramente tutte le immagini di morte, distruzione e sofferenza, che tutte le guerre inevitabilmente comportano, non vennero quasi mai mostrate: del massacro sull’autostrada Kuvait City-Bassora e sulla Jahra-Umm Quasr si venne a conoscenza solo anni dopo. 

I livelli di manipolazione delle informazioni a scopo propagandistico sono diversi. Possiamo quindi parlare di propaganda bianca, scoperta, quando il messaggio da promuovere è evidente; si parla di propaganda grigia quando invece c’è solo una parziale copertura delle fonti, c’è un omissione di particolari fondamentali, mancata contestualizzazione, un gioco di conferme e smentite delle notizie che tendono a confondere il pubblico. Il livello più alto di manipolazione si raggiunge con la black propaganda, in questo caso la comunicazione tende a determinare una vera e propria distorsione della realtà nel pubblico, si ha allora una assoluta e reiterata mistificazione delle fonti, una costruzione artificiosa di notizie false. Il processo propagandistico per influenzare l’opinione pubblica, e indurla ad accettare le scelte politiche governative, soprattutto in situazioni che possono portare ad una guerra, è ben riassunto in fasi dal Prof. M. Chias, docente di Studi Strategici presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia in Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa, che qui riportiamo per esteso: 

«demonizzazione del nemico, costruita e fomentata attraverso pratiche di black propaganda, quali la costruzione di prove fittizie, la pubblicizzazione di documenti inesistenti, la scoperta di atrocità mai commesse, l’attribuzione di dichiarazioni mai pronunciate, la denuncia di pericoli inesistenti, ecc.; trasmissione di informazioni contrastanti, utilizzo di fonti non verificabili, pubblicizzazione di ricerche, studi, sondaggi, immagini manipolate o decontestualizzate, al fine di determinare risentimenti e timori nell’opinione pubblica; sulla base delle operazioni precedenti, esaltazione dello spirito nazionalistico, o di gruppo, e dei valori ideologici, culturali, etici dei quali questo è portatore, denuncia del nemico e dichiarazione del proprio impegno nel nome del bene collettivo» (Chiais M. 2007:164).

Altro elemento fondamentale nella comunicazione politica volta a far accettare alla popolazione determinati impegni, e spesso sacrifici, nell’ottica di un superiore bene collettivo, è l’utilizzo dell’atrocity propaganda per alimentare un vero e proprio odio e rancore nei confronti dell’avversario diffondendo informazioni sui crimini commessi dai nemici in modo esagerato e spesso del tutto inventato. Tutto questo per creare nell’immaginario collettivo un nemico disumano,brutale, crudele fautore di crimini contro l’umanità. I crimini attribuiti al nemico saranno quindi nell’ordine: contro i deboli, in primis donne e bambini, contro luoghi sacri, contro civili inermi. 

Gli esempi storici sull’utilizzo di queste tecniche sono molteplici: già durante la prima guerra mondiale l’utilizzo di questa tecnica fu largamente usata da entrambi gli schieramenti, i francesi quindi scrivevano di un Kaiser tedesco che avrebbe «personalmente ordinato di torturare bambini di tre anni» e che prevedeva «un premio doppio» per i sommergibilisti che affondavano navi con donne e bambini, queste e altre notizie simili venivano raccolte nel “les atrocités allemandes” distribuito del Bureau de la presse francese. Non da meno i tedeschi del Die zeit in blind raccontavano di un prete francese «che portava al collo una catena fatta di anelli tolti dalle dita che aveva tagliato». Queste e altre falsità diffuse dalla stampa alleata durante la Prima guerra mondiale si possono trovare in Falsehood in Wartimes: Propaganda Lies of First World War del barone Arthur Ponsonby. Ovviamente tutte notizie mai confermate, semplici costruzioni artificiose per creare l’immagine di un nemico mostruoso. Questi esempi non sono dissimili da tutta la propaganda che si è avuta durante la Seconda guerra mondiale e successivi conflitti bellici. 

Scrivono Gordon Allport e Leo Postman sulla rivista The Psychology of Rumor nel 1946: «durante una sollevazione o una guerra le voci corrono più veloci che mai, e in questo periodo di eccitazione il loro carattere riflette un acuto fanatismo. Talvolta si tratta persino di allucinazioni. Torture, violenze, assassinii vengono narrati in maniera delirante, come per giustificare la violenza usata e accelerare il processo di vendetta»

Un esempio particolare però segna il cambio di passo dell’utilizzo della costruzione artificiosa delle notizie, e il suo impatto nella creazione di una nuova realtà effettiva, il suo farsi storia: l’eccidio di Timisoara del Natale 1989. 

Le prime notizie al riguardo iniziarono a girare sui media italiani il 19 dicembre, così scriveva quel giorno il Corriere della Sera in riferimento agli scontri avvenuti il 17 dicembre: «il vento della rivolta comincia a soffiare impetuoso anche nel regno del dittatore romeno Ceausescu, l’unico leader dell’Est che si ostina a bloccare l’ingresso della perestrojka nel suo paese ridotto alla fame. Ieri sono arrivate altre conferme delle manifestazioni che sabato e domenica hanno sconvolto le città di Timisoara e Arad (in Transilvania) e che sarebbero state represse nel sangue dalla polizia con l’appoggio dell’esercito». 

Mentre La Repubblica sempre il 19 dicembre scrive: «fonti dell’opposizione interna parlano di scontri violentissimi e di “trecento morti”, altri viaggiatori stranieri raccontano di aver visto cadaveri di giovanissimi abbandonati sul selciato».

Per “fonti” però sia i giornali italiani che quelli internazionali intendono sempre persone indefinite, senza nome, “un medico rumeno”, “un viaggiatore cecoslovacco”, “una donna tedesca occidentale” ecc. ecc. insomma fonti incerte e inattendibili. Non da meno sempre sul Corriere della Sera del 19 dicembre si può leggere di “testimoni oculari che parlano di un’orgia di violenza guidata dai carri armati” e del fatto che potrebbero essere “almeno mille i cadaveri portati all’obitorio”.

Il 20 dicembre l’emittente Radio Free Europe parla di una Timisoara “forse completamente distrutta” e di bambini schiacciati dai carri armati. La stessa emittente fa girare le prime cifre “ufficiali”: i morti sarebbero 4632 e i feriti 1282 (da notare l’estrema precisione dei numeri…). 

In questo grande accavallarsi di notizie e numeri sull’eccidio di Timisoara passa in terzo se non quarto piano l’invasione di Panama da parte degli Stati Uniti, iniziata il 20 dicembre.

Scrive E. Petta sul Corriere della Sera del 21 dicembre: «il governo di Bucarest ha negato anche ieri i morti di domenica. Le vittime, comunque, non sarebbero tre o quattrocento, ma duemila, probabilmente duemilacinquecento. Centinaia di cadaveri sono stati sepolti in fosse comuni, altri sono stati ammucchiati dai miliziani in sacchi di plastica e bruciati. E i miliziani stanno continuando la loro opera repressiva entrando nelle abitazioni private, interrogando e minacciando la gente, arre- stando elementi sospetti. Il quotidiano tedesco Die Weit ha scritto che decine di studenti sono stati portati via da Timisoara da camion militari per destinazione ignota».

La Stampa sempre il 21 dicembre parla di tre-quattromila morti.

La “conferma” dell’occultamento dei cadaveri in fosse comuni arriva sulla stampa internazionale il 22 dicembre a farne notizia sono dapprima France Press e la tv di stato ungherese e jugoslava e poi tutte le altre a ruota libera. Intanto iniziano a girare anche i primi filmati amatoriali sulle spaventose violenze.

Il 24 dicembre La Stampa parla di 12000 morti e cosi descrive la situazione sulle fosse comuni: «i cadaveri sono stati dissotterrati ma in molti casi il riconoscimento è stato quasi impossibile perché i volti erano stati sfigurati con l’acido. Numerosi corpi presentavano segni di torture, alcuni avevano i piedi legati col fil di ferro. C’era un bambino, c’era una madre col suo neonato. Sdegno, rabbia e disperazione tra la gente che nella notte, illuminando la scena con candele, scopriva il segreto più vergognoso di questi giorni di terrore. Secondo le prime ricostruzioni i cadaveri sarebbero stati portati alle fosse comuni con autocarri della raccolta rifiuti. Dopo la sepoltura i miliziani avrebbero ucciso anche gli autisti dei camion per cancellare ogni traccia della strage».

Il 25 dicembre su La Repubblica arriva la prima testimonianza diretta, il testimone oculare degli eventi in corso a Timisoara è lo stesso autore dell’articolo, Stabile scrive cosi: «Timisoara. L’orrore appare all’improvviso, appena varcato il cancello malmesso di un piccolo cimitero dei poveri con le croci di latta e le erbacce che imputridiscono nel fango. Nudi, tumefatti, straziati, sedici corpi giacciono uno accanto all’altro sopra bianche lenzuola, poggiati sulla terra bagnata, tragico manifesto di questa insurrezione che un potere irriducibile e malvagio ha voluto trasformare in guerra […] Dopo averli uccisi qualcuno si è accanito sui cadaveri. Tutti i corpi presentano una lunga cicatrice dal mento al bacino […] Ora si cercano gli altri corpi che dopo la mattanza di domenica e lunedì (3.600 i morti secondo la stima del fronte democratico rumeno, ma altre fonti parlano di dodicimila vittime)». 

Così scrive invece il fiammingo Blik: «prima di essere falciati con una mitragliatrice e gettati nella gigantesca fossa, gli uomini sono stati legati mani e piedi con filo spinato, i loro corpi sono stati torturati, i loro organi genitali strappati».

Sull’emittente francese TF1 il 28 dicembre così veniva descritto il leader rumeno: «Ceausescu, malato di leucemia, aveva bisogno di cambiare sangue ogni mese. Giovani dissanguati erano stati scoperti nelle foreste dei Carpazi. Ceausescu vampiro? Come crederlo? Le voci avevano parlato di cimiteri. Li hanno trovati a Timisoara. E non sono gli ultimi». 

I canali principali da cui queste notizie, riprese dai principali organi di stampa occidentali, entravano in Romania erano l’emittente Voice of America e Radio Free Europe.

Nicolae Ceaușescu e la sua coniuge vennero giustiziati il 25 dicembre presso Târgoviște da un tribunale improvvisato, l’accusa principale fu per il genocidio di Timisoara.

I primi dubbi sulla reale portata degli scontri di Timisoara iniziano a circolare il 24 gennaio, così si leggeva su France Press: «Tre medici di Timisoara hanno affermato che i corpi di persone decedute di morte naturale sono stati prelevati dall’istituto medico-legale e dall’ospedale della città ed esposti alle telecamere della televisione come vittime della Securitate».

Solo ad aprile del 1990 inizia ad emergere la totale infondatezza dei fatti raccontati su Timisoara, il francese Libération il 4 di questo mese esce con uno speciale dal titolo “Vera storia di Timisoara” : attraverso l’utilizzo di fonti ufficiali e certe conclude che i morti nel presunto eccidio furono 147 e i feriti 335. Le fosse comuni in cui sarebbero stati occultati i cadaveri massacrati dei “Martiri della rivoluzione” si dimostrò essere in realtà la pratica usata comunemente per la tumulazione dei cadaveri della parte di popolazione più povera che non poteva permettersi una sepoltura più dignitosa.

A distanza di tre anni, nel novembre 1993 uno dei più autorevoli giornali francesi, Le Monde diplomatique, definirà la narrazione sugli eventi romeni del Natale del 1989 un “vero e proprio deragliamento dell’informazione”, “il più grande inganno mondiale dopo l’invenzione della televisione”.

Al di là delle smentite, arrivate dopo mesi, se non anni, di distanza non si mai arrivati a scoprire chi organizzò questa gigantesca campagna di mistificazione. L’unico fatto certo fu che nel giro di pochi giorni riusci in pieno nel suo scopo, rovesciare il regime romeno.

Si può affermare che il successo di questa operazione fece scuola nel campo dell’utilizzo sistematico delle tecniche propagandistiche più estreme, e innegabilmente più efficaci. 

Questo tipo di utilizzo dei media fu infatti utilizzato durante la Prima guerra del Golfo con la costruzione del personaggio del Capitano Karim, presunta guardia del corpo di Saddam Hussein, accreditato come fonte assolutamente sicura dal famoso giornalista francese Patrik Poivre di TF1. Con i suoi racconti da testimone oculare dei fatti delle immani atrocità compiute da Saddam Hussein ebbe un ruolo importante nel sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo francese, della giustezza dell’intervento militare in Iraq, peccato che, a guerra conclusa, lo stesso controspionaggio francese conformò che si trattava di un impostore che non aveva mai conosciuto il dittatore iracheno.

Non meno spettacolare fu la notizia dei neonati strappati dalle incubatrici e lasciati morire dall’esercito iracheno nell’ospedale di Kuwait City, in questo caso le fonti dirette, i testimoni oculari dell’evento, furano la quindicenne Nayirah, presunta volontaria dell’ospedale, e il dottor Behbehani, sempre presente durante gli eventi, che confermò davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di aver personalmente assistito all’uccisione di 40 bambini, peccato che poi si venne a scoprire che la prima non era nientemeno che la figlia dell’ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti e mai stata presente agli eventi, e il medico nient’altro che un dentista che a guerra finita ammise di aver mentito.

Ma questi non sono che esempi. Di narrazioni costruite ad hoc per scopi propagandistici se ne potrebbero citare molteplici: la storia del soldato Jessica Lynch durante il secondo conflitto in Iraq, che ha personalmente smentito la versione ufficiale della sua storia; la storia sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein e della ormai imminente costruzione di una bomba atomica, smentite chiaramente dallo scienziato David Kelly l’una e dal direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Mohamed el Baradei la seconda. E potremmo continuare con le false notizie diffuse durante la guerra jugoslava, in Cecenia, in Libia, in Siria, nell’eterno conflitto arabo-israeliano, ecc. ecc.

Chiaramente qui sono stati riportati gli esempi per quanto riguarda i media occidentali, dando per scontato che nei regimi autoritari e dittatoriali la manipolazione delle informazioni è prassi comune, non serve ad esempio citare tutte le dichiarazioni antiamericane dei vari leder arabi da Ali Kamenei, a Saddam Hussein, da Gheddafi a Ahmadinejad, per capirne l’intrinseca mistificazione della realtà.

Quello che si vuole qui evidenziare è che anche nei paesi dove non esiste una propaganda di Stato in tempo di pace, al mutare della situazione internazionale, durante l’avvicinarsi a situazioni che possono portare ad un conflitto armato, allora, anche nei paesi democratici, si possono attivare i processi appena descritti; è quindi necessario rivedere oggi queste tecniche, studiare i processi alla base di queste “narrazioni”. Con l’emergere dei social network, delle piattaforme di condivisione video, con la possibilità di “osservare” in tempo reale gli eventi bellici è oggi ancora più importante la conoscenza di come storicamente sono state diffuse notizie false allo scopo di avvalorare e far condividere scelte impopolari. La macchina della propaganda si è ormai attivata su tutti i fronti, riconoscerne il rumore è necessario, sentire la puzza delle sue emissioni nocive e spegnerla un dovere.

In definitiva possiamo chiudere questa breve riflessione su un argomento così vasto citando le parole di Edward Louis Bernays, padre dei moderni metodi per l’utilizzo del subconscio al fine di manipolare l’opinione pubblica, e che ricoprì un ruolo fondamentale nel successo dell’opera di persuasione dell’opinione pubblica americana del Creel Committee, istituito dal Presidente Woodrow Wilson nell’aprile del 1917 proprio allo scopo di convincere la maggioranza degli americani all’epoca contrari alla guerra ad entrare con la massima forza e convinzione nel primo conflitto mondiale e superare il naturale isolazionismo americano.leggiamo in  Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, una delle opere più affascinanti tra le tantissime pubblicate dall’autore : «la manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini e delle idee delle masse è un aspetto importante del funzionamento di una società democratica». 

Per completezza ricordiamo che Bernays è stato inserito, non a caso potremmo aggiungere, dalla rivista Life tra le 100 figure più importanti del XX secolo.

*Alcune regole riportate da Candoto M. in Dal nostro inviato di guerra. Cronache di un mestiere che cambia, erano: è proibito fotografare o filmare soldati feriti o morti; è proibito pubblicare informazioni sul tipo di armi, equipaggiamenti, spostamenti, consistenza numerica delle unità; è proibito descrivere con particolari e dettagli lo svolgimento delle operazioni militari, pubblicare notizie sugli obiettivi e sui risultati conseguiti dalle stesse operazioni; è proibito dare una identità precisa alle località e alle basi dalle quali partono specifiche missioni di combattimento; i servizi si possono identificare con frasi come “Golfo Persico”, “Mar Rosso”, “Arabia Saudita Orientale”, “Zona di confine con il Kuwait”; è proibito pubblicare informazioni sulla consistenza numerica e sull’armamento delle forze nemiche; è proibito dare particolari sulle perdite subite dalle forze della coalizione; possono essere usate definizioni come “scarse”, “moderate”, “gravi”; sono vietate le interviste non concordate.

Nascita delle Nazioni Unite e evoluzione del diritto internazionale fino ai giorni nostri

La fine della Seconda guerra mondiale porta con se grandi cambiamenti, è in questo periodo che si afferma l’idea che la guerra di aggressione debba essere considerata un crimine internazionale e che quindi fosse necessario «introdurre la giustizia penale nell’ordinamento internazionale per punire, assieme ai responsabili di ogni altro crimine di guerra, anche i responsabili di una guerra di aggressione» (Zolo D., La giustizia dei vincitori: Da Norimberga a Baghdad). Vengono quindi istituiti i tribunali penali internazionali di Norimberga e Tokyo dove vengono processati e condannati a vario grado gerarchi tedeschi e giapponesi.

La criminalizzazione della guerra di aggressione viene poi sancita nella Carta delle Nazioni Unite dove all’art. 39 si dice: «il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» e nello specifico all’art. 42 si enuncia che: «se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 [misure non implicanti l’uso della forza armata] siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite». 

Va de se che grazie al potere di veto che le cinque potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale si sono attribuite in seno al Consiglio di Sicurezza renda questi articoli nulli nei loro confronti. 

È in questo modo che sono stati compiuti impunemente gli interventi in americani in Vietnam, Guatemala, Libano, Cuba, Santo Domingo, Grenada, Libia, Panama, tra il 1956 e il 1986, così come quelli sovietici in Afghanistan e Est Europa tra il 1956 e 1968.

La «giustizia dei vincitori», come la definisce Zolo, dopo la lunga pausa della guerra fredda, si manifesta di nuovo negli anni Novanta alla fine delle guerre jugoslave con l’istituzione del tribunale internazionale dell’Aja dove vengono giudicati i vertici ritenuti responsabili, e poi di nuovo alla fine della seconda guerra in Iraq, culminata con l’impiccagione di Saddam Hussein. 

Sempre seguendo Zolo possiamo definire l’azione in Jugoslavia come «guerra umanitaria» e la seconda in Iraq «guerra preventiva».

Seguendo il paradigma della «giustizia dei vincitori» nessuno è stato giudicato per i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e per i bombardamenti a tappeto delle città tedesche, a conflitto ormai terminato, che hanno provocato centinaia di migliaia di vittimi civili, così come nessun tribunale ha mai aperto un procedimento per i responsabili dei 78 giorni di ininterrotti bombardamenti sulla Serbia, Vojvodina, Kosovo, o sui 42 giorni di bombardamenti sull’Iraq durante la prima guerra del golfo, nei quali è stato utilizzato lo «stesso quantitativo di esplosivo usato durante tutto il secondo conflitto mondiale» (Zolo D., I signori). Nessuno inoltre è mai stato giudicato per l’utilizzo di napalm e fosforo bianco durante l’attacco a Falluja durante la seconda guerra del Golfo né per l’attacco russo in Cecenia (vedi inchiesta Rainews24 di Sigfrido Ranucci, Fallujah. La strage nascosta).

Scrive sempre Zolo: 

«Mi sembra dunque ragionevole denunciare […] il «sistema dualistico» della giustizia internazionale. C’è una giustizia su misura per le grandi potenze e le loro autorità politiche e militari: esse godono di un’assoluta impunità sia per i crimini di guerra sia, e soprattutto, per le guerre di aggressione di cui in questi anni si sono rese responsabili, mascherandole come guerre umanitarie per la protezione dei diritti umani o come guerre preventive contro il “terrorismo globale”. Dal 1946 ad oggi non è mai stato celebrato un solo processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per crimini di aggressione. E c’è una “giustizia dei vincitori” che si applica agli sconfitti, ai deboli e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l’omertà di larga parte dei giuristi accademici, la complicità dei mass media e l’opportunismo di un numero crescente di sedicenti “organizzazioni non governative”, in realtà al servizio dei propri governi e delle proprie convenienze» (Zolo D., I signori).

Ora è in questa ottica che torna di attualità la riflessione di Schmitt: non essendo più limitata da nessuna regola la guerra torna ad essere “giusta”, in questo senso è come se si fosse fatto un passo indietro di diversi secoli. Se si torna al bellum justum alla justa causa belli di De Vitoria (vedi articolo precedente sul blog, L’evoluzione del concetto di guerra – parte II)) se l’aggressore diventa criminale la guerra può allora essere illimitata: «una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento». (Zolo D., I signori, ripreso da Schmitt. C., Der Nomos der Erde, cit., p. 219)

Se l’aggressore non è più un justus hostis allora è un criminale, che non ha diritti, e contro il quale è possibile fare una guerra di sterminio, diventa un hostis generis humani.

È da notare che il prodromo di questo nuovo paradigma si ha già con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 contro la Germania guglielmina: «entrando in guerra contro la Germania gli Stati Uniti avevano annullato i concetti non discriminatori di guerra e di neutralità e si erano attribuito il potere di decidere su scala internazionale quale parte belligerante avesse ragione e quale torto, trasformando il conflitto in una “guerra civile mondiale”», quindi preconizzava Schmitt e sintetizza Zolo che «la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra globale, asimmetrica, “giusta” e “umanitaria”, ma sarà una guerra capace di una discriminazione abissale del nemico, poiché assumerà la forma di una permanente azione di polizia: una polizia internazionale, ovviamente controllata dagli Stati Uniti, che userà armi di distruzione di massa contro i perturbatori della pace, senza più alcuna distinzione tra truppe regolari e milizie irregolari, e fra militari e civili» (Zolo D., introduzione a Il concetto discriminatorio di guerra di Schmitt C.) è importante notare due fattori nel ragionamento di Schmitt: primo, la limitazione delle guerre nel Settecento e Ottocento non è intesa come frequenza e neanche come violenza in se ma nel senso che queste avevano un regolamento, potremmo dire un codice: la guerra tra stati era sempre qualcosa di diverso dalla pirateria o dall’omicidio, questo perché gli Stati erano i soggetti del diritto internazionale, con proprio diritto, onore e dignità; secondo, da questo schema erano esclusi tutti i conflitti che si svolgevano negli spazi coloniali, quindi al di fuori dello spazio europeo. Per Zolo Schmitt «sembra pensare che il diritto bellico sia il solo strumento in grado di limitare, razionalizzare e umanizzare la guerra, alla condizione [però] che non pretenda di cancellarla in nome di un astratto pacifismo universalistico». (Zolo D., introduzione Il concetto).

La fine della guerra fredda e l’avvento del mondo unipolare hanno infine confermato le ipotesi di Schmitt quando profetizzava «l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neoimperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali”, che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile» (Zolo D., Schmitt C., in Teoria del partigiano). D’altro canto hanno smentito quelle di Kelsen che vedeva nella creazione di istituzioni sovranazionali e di un ordinamento giuridico globale gli strumenti per garantire una pace stabile e universale. 

Veniamo quindi ad affrontare nel particolare le teorie giuridiche di Kelsen, innanzitutto per Kelsen esiste un solo ordinamento giuridico che include sia il diritto interno che quello internazionale. Partendo dalle tesi di Kant cerca di «eliminare dalla scienza del diritto ogni elemento soggettivo per farne una conoscenza unitaria e oggettiva e cioè “pura”».

Inoltre «inteso come ordinamento giuridico originario, esclusivo e universale, il diritto internazionale è perciò incompatibile con l’idea della sovranità degli Stati nazionali e territoriali e dei loro ordinamenti giuridici: questa idea deve essere radicalmente rimossa» (Zolo D., I signori). In questo passaggio vediamo tutta l’opposizione tra il pensiero di Kelsen e Schmitt, perché mentre il primo nella crisi (e fine) dello jus publicum europeaum vedeva l’opportunità di rimuovere il concetto di sovranità, quello che era il maggiore ostacolo alla creazione di una «cosmopolis capace di assicurare una pace perpetua», Schmitt vedeva il «rischio della perdita delle maggiori conquiste della scienza giuridica moderna» (Zolo D., introduzione Il concetto). E ancora:

«per Schmitt il progetto cosmopolitico non è che la suprema neutralizzazione della sovranità, la negazione utopica della sua essenza polemica, l’illusione irenistica che gli uomini si possano dare un ordine politico prescindendo dalle loro profonde differenze, dalle loro irrazionali paure e feroci ostilità. E ignorare che lo Stato non è altro che l’organizzazione del pregiudizio contro altri, inconciliabili pregiudizi» (Zolo D., La sovranità: nascita, sviluppo e crisi di un paradigma politico moderno).

Per Kelsen la supremazia del diritto internazionale su quello statuale va ricercata già nell’antica idea teologica della “civitas maxima” idea presente nella nozione di “imperium romanum” già prima della nascita del diritto internazionale.

Scrive Kelsen: «come per una concezione oggettivistica della vita il concetto etico di uomo è l’umanità, così per la teoria oggettivistica del diritto il concetto di diritto si identifica con quello di diritto internazionale e proprio perciò è in pari tempo un concetto etico», e continua «solo temporaneamente e nient’affatto per sempre l’umanità contemporanea si divide in Stati, che si sono formati del resto in maniera più o meno arbitraria. La sua unità giuridica e cioè la “civitas maxima” come organizzazione del mondo: questo è il nocciolo politico del primato del diritto internazionale, che è al tempo stesso l’idea fondamentale di quel pacifismo che nell’ambito della politica internazionale costituisce l’immagine rovesciata dell’imperialismo» (Zolo D., 2006, citando Kelsen, “Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts“, cit., trad. it. p. 468), il paradosso nella concezione kelseniana è l’opposizione all’imperialismo e alla logica di potenza delle concezioni individualistico-statuali riprendendo le nozioni di “imperium romanum” e “civitas maxima”. Inoltre cercando di integrare la morale, l’economia e la politica sotto un’organizzazione globale dell’umanità «ripropone nel ventesimo secolo una dottrina illuministica e giusnaturalistica risalente all’Europa del Settecento» (Zolo D., Ivsignori). Prevedendo nel modello la possibilità di sanzioni e mezzi di coercizione Kelsen fa notare che trascurando la dottrina del “iustum bellum” i teorici del diritto internazionale moderno negano la natura giuridica stessa del diritto internazionale. Kelsen altresì riconosce la validità della guerra giusta come strumento coercitivo per difesa o reazione quindi in caso di “iusta causa belli”, mentre la esclude totalmente al di fuori di questo caso, quindi per cui la «mancanza di un’istanza giudiziaria che accerti l’iniziale violazione del diritto internazionale e autorizzi l’atto sanzionatorio della guerra è una grave carenza dell’ordinamento internazionale» (Zolo D., I signori). Anche in questo caso si nota un paradosso tra il richiamo agli ideali pacifisti e antimperialisti e l’assunzione del concetto di guerra giusta nell’ordinamento giuridico internazionale. 

Pur riconoscendo l’uguaglianza di tutti gli Stati Kelsen non condanna il privilegio concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza creando anche in questo caso un certo paradosso con l’idea iniziale, e anche con la concezione di uno stato federale mondiale a cui Kelsen si rifà per arrivare alla pace perpetua. In effetti lo stesso Kelsen riconosce la difficoltà di arrivare a tale unione con metodi democratici, ed è per questo che una delle condizione è che «sia il risultato di un lungo processo storico e non di una rivoluzione» (Zolo D., I signori). Possiamo pensare che l’ottimismo di Kelsen durante il secondo dopoguerra fosse anche dato dalla situazione per cui globalmente si erano venute a creare tre-quattro grandi potenze per cui poteva sembrare più semplice se non il progetto di uno stato federale mondiale per lo meno il buon funzionamento di una nuova organizzazione mondiale per il mantenimento della pace, concretizzatosi nel suo progetto per una Lega permanente per il mantenimento della pace, una sorta di miglioramento della Società delle Nazioni con una corte di giustizia internazionale come organo principale (al posto del Consiglio). Inoltre per Kelsen, e quindi al contrario di Grozio, anche gli individui sono direttamente vincolati alle norme del diritto internazionale e esposti alle sua sanzioni, per cui prevedeva che «la Corte dovrà dunque non soltanto autorizzare l’applicazione di sanzioni collettive ai cittadini di uno Stato in base ad una loro “responsabilità oggettiva”, ma dovrà anche sottoporre a processo e punire singoli cittadini personalmente responsabili di crimini di guerra. E gli Stati saranno obbligati a consegnare alla Corte i loro cittadini incriminati. Essi potranno essere sottoposti a sanzioni, inclusa a certe condizioni la pena di morte, anche in violazione del principio della irretroattività della legge penale, alla sola condizione che l’atto, al momento del suo compimento, fosse considerato ingiusto dalla morale corrente, anche se non vietato da alcuna norma giuridica». Pur prevedendo quindi il giudizio per i singoli cittadini Kelsen criticò fortemente l’istituzione dei tribunali internazionali alla fine della Seconda guerra mondiale che non prevedevano la partecipazione dei rappresentanti degli stati neutrali, e per lo più competente a giudicare solo i crimini dei nazisti, dei vinti. Cosi sintetizza Zolo: «la punizione dei criminali di guerra, afferma Kelsen, dovrebbe essere un atto di giustizia e non la continuazione delle ostilità con strumenti formalmente giudiziari ma in realtà rivolti a dare soddisfazione ad una sete di vendetta. Ed è incompatibile con l’idea di giustizia che solo gli Stati vinti debbano essere obbligati a sottoporre i loro cittadini alla giurisdizione di una Corte internazionale per la punizione dei crimini di guerra. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto trasferire la giurisdizione sui propri cittadini che avessero violato le leggi di guerra al Tribunale di Norimberga, che avrebbe dovuto essere un’assise indipendente e imparziale e non una corte militare o un tribunale speciale. E non c’era alcun dubbio, per Kelsen, che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale. Solo se i vincitori sottomettono se stessi alla medesima legge che intendono imporre agli Stati sconfitti, ammonisce Kelsen, è salva la natura giuridica, e cioè la generalità, delle norme punitive ed è salva l’idea stessa di giustizia internazionale» (Zolo D., I signori). 

Se vogliamo l’idea di Kelsen si realizzò con la nascita della Corte penale internazionale il primo luglio del 2002 con l’entrata in vigore del suo Statuto; infatti prerogativa della Corte è proprio di giudicare i singoli individui, e non Stati, accusati di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e lo stesso crimine di aggressione (art.5, par. 1 dello Statuto di Roma) commessi sul territorio da parte di uno o più residenti di uno stato parte. 

Ora, anche se è possibile giudicare il cittadino di uno Stato non facente parte dell’organizzazione, questo Stato non è tenuto ad estradare il proprio cittadino accusato dalla stessa e ad oggi non esistono mezzi coercitivi per giudicare cittadini di Stati non membri. Lo Statuto, anche se riconosce il crimine di aggressione all’art. 5 al comma 2 stabilisce che la Corte «eserciterà la giurisdizione sul crimine di aggressione solo dopo che sia stata adottata una norma che, nel rispetto degli articoli 121 e 123, definisca il crimine di aggressione e indichi le condizioni in presenza delle quali la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione su tale crimine». Ad oggi la corte conta 123 Stati membri, ma tra questi non figurano Stati Uniti, Russia e Cina, rendendo di fatto l’organizzazione un’ “anatra zoppa”.

Per concludere questa analisi, e per completezza, è necessario per lo meno accennare al contributo di Bobbio alla riflessione. In questa epoca dove la guerra potrebbe sfociare in un conflitto nucleare devastante per tutta l’umanità per Bobbio vengono a cadere tutte le concettualizzazioni che giustificavano i conflitti armati, l’epoca di Hegel o Nietzsche è superata dalle tecniche di guerra attualmente disponbili, «la guerra moderna è puramente e semplicemente un fenomeno irrazionale e distruttivo, che non offre nessun vantaggio dal punto materiale, civile o tecnico-scientifico e che è privo di qualsiasi giustificazione morale» (Zolo D., I signori).

Scrive sempre Zolo a proposito delle idee di Bobbio presenti in Il problema della guerra e le vie della pace: «Bobbio è dunque severamente critico anche della dottrina etico-teologica del “iustum bellum“, nella quale vede non un tentativo di sottoporre la guerra a regole morali ma, nella sostanza, un cedimento morale alle ragioni della guerra. La teoria della “guerra giusta” – scrive Bobbio in un saggio del 1966 – era già stata messa in crisi dall’apparire della guerra moderna. E lo scatenamento della guerra atomica le ha dato il colpo di grazia». In definitiva per Bobbio gia a partire dagli anni Sessanta la teoria del “iustum bellum” non era già più applicabile.

La dottrina della guerra giusta, quindi, anziché riuscire nell’intento di «far vincere chi ha ragione» è stata usata per «dar ragione a chi vince». Neppure la legittimità morale della guerra di difesa di uno Stato aggredito da un altro Stato, argomento centrale del “ius ad bellum“sopravvive in epoca nucleare. La stessa distinzione fra guerra di difesa e guerra di offesa viene a cadere. Se vengono usate armi nucleari «la guerra di difesa in senso stretto ha perduto ogni ragion d’essere». 

Mentre con la teoria della guerra giusta e dello “ius belli” la guerra era un mezzo per attuare il diritto, con la guerra moderna si torna all’hobbessiano stato di natura, la guerra ora è «antitesi del diritto». Con queste premesse Bobbio formula il suo «pacifismo giuridico» che così descrive sempre in Il problema della guerra e le vie della pace:

«Il ragionamento che sta alla base di questa teoria è di una semplicità e di una efficacia esemplari: allo stesso modo che agli uomini nello stato di natura sono state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all’uso individuale della forza e poi l’attribuzione della forza ad un potere unico destinato a diventare il detentore del monopolio della forza, così agli stati, ripiombati nello stato di natura attraverso quel sistema di rapporti minacciosi e precari che è stato chiamato l’equilibrio del terrore, occorre compiere un analogo passaggio dalla situazione attuale di pluralismo di centri di potere alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che abbia nei confronti dei singoli stati lo stesso monopolio della forza che ha lo stato nei confronti dei singoli individui». 

Anche Bobbio come Kelsen (di cui era amico personale) vuole superare il sistema degli Stati sovrani, il sistema di Vestfalia, per arrivare ad uno stato mondiale, anche se è forse più corretto dire seguendo Zolo che Kelsen «interpreta Kant in chiave hobbesiana» cioè egli vuole assegnare al «federalismo kantiano il significato di un vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stato nazionali e di costruzione di uno stato mondiale». Condizione per arrivare a ciò è la sottoscrizione da parte di tutti gli Stati di un “pactum societatis” e di un “pactum subjectionis” dove si attribuisce ad un organismo terzo il potere di regolare coattivamente i loro rapporti e le controversie. Come Kant chiarisce che gli Stati devono necessariamente essere delle Repubbliche se non delle democrazie in senso completo.

Bobbio quindi vede nella nascita delle Nazioni Unite un primo passo verso la realizzazione del suo pacifismo giuridico; anche se ancora manca il requisito del “pactum subjectionis”, afferma che la nuova organizzazione è comunque un grande passo avanti per l’umanità. Bisogna qui ricordare che queste teorizzazioni di Bobbio risalgono alla sua produzione degli anni ’60, e quindi all’alba della nuova era atomica, e anche per lui il progresso più importante rispetto all’ordinamento della Società delle Nazioni era l’inclusione nelle nuove Nazioni Unite degli articoli 42 e 43.

Profetiche risultano allora le sue conclusioni che a distanza di 50 anni risultano ancora attuali: «Oggi il vecchio e il nuovo coesistono: il vecchio ha perso legittimità rispetto alla lettera e allo spirito della Carta delle Nazioni Unite, ma il nuovo o non è stato compiutamente realizzato o gode di scarsa effettività. Così, ad esempio, l’art. 43, che prevedeva l’obbligo degli Stati membri di mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza le forze armate necessarie per prevenire e reprimere le violazioni della pace, non è mai stato applicato ed è caduto in desuetudine. I due sistemi convivono perciò l’uno accanto all’altro, agendo uno indipendentemente dall’altro e, spesso, uno contro l’altro». 

Rispetto a tutta questa costruzione teorica risultano però per lo meno ambigue se non del tutto incoerenti le giustificazioni portate da Bobbio per l’intervento americano durante la Prima guerra del Golfo, vista come una “guerra giusta” anche se classificata come “uso legittimo della forza” e anche se non direttamente autorizzata dalle Nazioni Unite come disposto dal capitolo 7; a sua giustificazione scrive: «la risposta alla violazione del diritto internazionale non è stata affidata al diritto tradizionale, e sinora sempre di fatto applicato, dell’autotutela, ma è stata «autorizzata», come si è espresso pubblicamente il Segretario generale delle Nazioni Unite, e ha avuto un principio di giustificazione da un’autorità superiore ai singoli Stati, tanto da poter essere chiamata «legale», cioè conforme al diritto costitutivo del supremo organo delle Nazioni Unite. Questo fatto potrebbe rappresentare un passo avanti in quel processo di formazione di un potere comune al di sopra degli Stati, e quindi di trasformazione del sistema internazionale, di cui la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, pur nella sua potenzialità ancora non pienamente dispiegata, rappresenta una tappa» (Conf. Bobbio, Una guerra giusta?).

In effetti come scrive Zolo «il Consiglio di sicurezza si è limitato in questi decenni a distribuire delle letters of marque o «lettere di corsa», e cioè delle deleghe in bianco offerte alle grandi potenze che si mostravano interessate a condurre operazioni militari di peace-enforcing, o esigevano imperiosamente di farlo. La patente di legalità internazionale che di volta in volta è stata concessa ha semplicemente trasformato, per così dire, i pirati in corsari, in privateers» ( vedi interventi in Somalia, Ruanda, Haiti, Bosnia-Herzegovina, Kosovo) (Zolo D., La giustizia dei vincitori); in questi casi il consiglio di sicurezza non ha effettuato nessun controllo, ha anzi legittimato la condotta delle grandi potenze compreso l’utilizzo di armi di distruzione di massa come i fuel-air explosive e le daisy-cutter. Un altra grave mancanza della Carta è che non esiste una definizione chiara di guerra di aggressione, si legge all’art. 51: «nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale». In teoria questo impedirebbe un’azione preventiva quindi, salvo poi che soprattutto Stati Uniti e Israele abbiano interpretato la nozione di autodifesa in modo estremamente allargato facendo rientrare i loro interventi all’interno del concetto. Anche la risoluzione 3314 del dicembre 1974 non chiarisce il concetto, oltre al fatto che non essendo stata emanata dal Consiglio ma dall’Assemblea non è vincolante. Sintetizza a tal proposito Cassese che le grandi potenze: «intendono conservare, in sede di concreta applicazione di quella disposizione, un ampio margine di libertà di azione sia a titolo individuale, sia a titolo collettivo attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La definizione di “aggressione” è rimasta sospesa in una sorta di stato di “quiescenza” sia per quanto riguarda la sua qualificazione come illecito dello Stato, sia come crimine internazionale di un individuo» (Cassese A., Lineamenti di diritto internazionale penale) Per Gaja addirittura la criminalizzazione della guerra di aggressione non ha avuto sviluppi significativi in termini normativi all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale e infatti «dal 1946 ad oggi non è stato mai celebrato alcun processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per presunti crimini di aggressione, e ciò malgrado il fatto che siano indiscutibilmente numerosi i casi in cui gli Stati hanno compiuto atti di aggressione, e che in relazione ad alcuni di essi lo stesso Consiglio di Sicurezza abbia espressamente riconosciuto la sussistenza di un atto di aggressione da parte di uno Stato», nonostante ci sono stati molti casi di aggressione. Vediamo nello specifico il caso dell’attacco NATO del marzo 1999 contro la Jugoslavia. Innanzitutto l’attacco fu deciso senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza e condannato da Russia, Cina e India. Anche se il Tribunale dell’Aja, grazie alla sua natura speciale, poneva sullo stesso piano giuridico gli aggressori e gli aggrediti (proprio per superare, come aveva fatto notare Kelsen, la natura sbagliata del tribunale di Norimberga che poteva giudicare solo i nazisti) non si è mai arrivati ad un’incriminazione degli aggressori (che ricordiamo in questo caso erano i membri NATO). 

In primis, il Tribunale dell’Aja fu fortemente voluto e finanziato dagli Stati Uniti; secondo, durante la guerra in Bosnia si era stretta una forte collaborazione giudiziaria fra Procura Generale del Tribunale e le forze NATO che «svolgevano funzioni di polizia giudiziaria, compiendo attività investigative, ricercando le persone incriminate e procedendo al loro arresto per conto del Tribunale», e questo sia prima che dopo l’aggressione del marzo 1999; terzo, la Procura Generale, grazie al suo Statuto, ha potuto ignorare le «violazioni del diritto internazionale di guerra durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti nel corso di oltre diecimila missioni d’attacco da parte di circa mille aerei alleati» (Zolo D., La giustizia) per la quale il Tribunale aveva piena competenza giuridica. 

Furono presentate tre denunce formali da parte di una delegazione di parlamentari russi, dal governo di Belgrado, e da alcuni giuristi canadesi guidati da Michael Mandel, tutte furono archiviate. Le denunce in particolare riguardavano: l’attacco alla televisione di Belgrado del 23 e 24 aprile 1999, che causò venti morti tra giornalisti e operatori; l’uso di circa 1400 bombe a grappolo (cluster bomb); l’uso di proiettili a uranio impoverito sganciati dai bombardieri A10 tank-buster in dotazione agli Stati Uniti, come ammesso dallo stesso Generale della NATO George Robertson. 

La Procura giustificò l’archiviazione affermando che la NATO «non avrebbe mai usato la forza per provocare “direttamente o indirettamente vittime civili”, all’assenza di un’intenzionalità dolosa e al carattere del tutto occasionale di alcuni errori tecnici o di alcune carenze di informazione». Nel giudicare l’intera vicenda Cassese afferma che è indubbia l’esistenza di una “sindrome di Norimberga”, una tendenza della giurisdizione penale internazionale a perpetuare il modello della “giustizia dei vincitori”.

Per quanto riguarda invece i territori occupati in seguito ad un aggressione, a questi si applica la disciplina dell’occupazione militare regolata dalla quarta convenzione di Ginevra del 1949, «l’occupazione di un territorio è una fattispecie di diritto internazionale che prescinde dal carattere legale o, invece, criminale dell’uso della forza che ha portato all’occupazione del territorio», questa dottrina si richiama al “principio di effettività”, per cui è la forza la sua fonte di legittimazione. Per cui «sono le grandi potenze che “fanno” il diritto internazionale e la scienza del diritto internazionale ha il compito di formalizzare come nuove regole le decisioni via via assunte dalle grandi potenze. Da questo punto di vista “realistico” è ovvio che una potenza che abbia invaso un territorio con la forza delle armi, e lo abbia posto stabilmente sotto il proprio controllo, esercita legittimamente i diritti che la quarta Convenzione di Ginevra accorda ai vincitori nei confronti dei vinti». La Convenzione di Ginevra detta anche le norme sui diritti e doveri degli occupanti nei confronti dei civili (articoli dal 47 al 78); particolarmente rilevante è l’art. 64 secondo il quale possono essere abrogate leggi penali e istituirne di nuove, da parte degli occupanti, nel caso in cui essi le ritengano pericolose/necessarie per la propria sicurezza, possono inoltre istituire corti penali contro gli occupati. Scrive Zolo a tal proposito: «ci troviamo dunque di fronte a un processo giuridico nel quale, per una sorta di magica transustanziazione normativa, il fatto che l’aggressione armata abbia avuto successo, dando luogo all’occupazione militare del territorio degli aggrediti, produce una sanatoria automatica del “crimine supremo” commesso degli aggressori e ne rende legittimi i risultati. Si tratta di una incoerenza giuridica che il richiamo al “principio di effettività” non dovrebbe minimamente sanare o attenuare, purché non si adotti la massima, improntata a un radicale realismo giuridico, ex iniuria oritur jus».

In conclusione ad oggi il diritto internazionale e quanto mai “evanescente”, come dice Zolo citando Lauterpacht «inidoneo a esercitare effettive funzioni normative e regolative. Lo jus contra bellum non si è rivelato più efficace dello jus belli». E il motivo principale sta proprio nella genesi delle Nazioni Unite, nei diritti esclusivi che le potenze vincitrici si sono arrogate durante la sua costituzione, e anche , se vogliamo, nella decisa opposizione a perdere qualsivoglia delle prerogative date dalla propria legittima sovranità. 

Citando Radhabinod Pal, giudice indiano del Tribunale di Tokyo, e ancora oggi attuale: «solo la guerra persa è un crimine internazionale».

La conferenza di pace di Parigi

Prima di affrontare il capitolo dedicato al trattato di Versailles e ai suoi articoli principali, bisogna considerare il sentimento che almeno fino al gennaio del 1917 aveva animato il ventottesimo presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Eletto nel 1912 per il partito democratico alla presidenza e rieletto per un secondo mandato fino al 1921 Wilson proveniva dal mondo accademico fu infatti prima professore e poi rettore dell’Università di Princeton. «Studioso di politica, aveva idee precise circa il carattere della carica presidenziale, il sistema dei partiti e il ruolo degli Stati Uniti nel consesso delle nazioni; il contributo maggiore che Wilson diede alla scienza politica durante il suo periodo accademico, risiede nel tentativo di riformulare il concetto applicato di democrazia americana, insieme ad una ridefinizione dell’idea di pubblica amministrazione e la sostituzione della nozione politica di popolo con l’idea più vasta di nazionalità» (Meneguzzi Rostagni C. L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Cedam, Padova, 2000. p. 85).

Caratteristica importante della personalità di Wilson era il suo moralismo. Inoltre il presidente americano era molto ostile al vecchio principio dell’equilibrio europeo, «in cui credeva di vedere la radice stessa delle guerre, e non aveva affatto stima per il sistema del direttorio delle potenze per il quale le grandi imponevano la loro volontà alle piccole» (Jean-Baptiste Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano,1998. p. 67).

Wilson era inoltre visto come «portatore di un Nuovo Ordine all’umanità in una misura che causò preoccupazione al resto dei capi alleati»(Albrecht-Carrié René, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Roma-Bari, 1978. p.403). 

Quindi in linea con la sua formazione professionale e con i propri valori morali il 22 gennaio 1917 il presidente dichiarava dinanzi al Senato la convinzione che si dovesse mirare ad una «pace senza vittoria senza vantaggi per gli Stati Uniti ma per costruire un mondo migliore, un mondo non più basato sull’equilibrio e sulla diplomazia segreta, ma sul diritto, sugli accordi pubblici, su una associazione di potenze»(Meneguzzi Rostagni C. L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Cedam, Padova, 2000). Questo proposito però non durò molto e a seguito del perpetrarsi della guerra sottomarina tedesca il presidente muterà il proprio atteggiamento.


Già nel messaggio di Wilson al congresso degli Stati Uniti il 2 aprile 1917 si notò come egli chiedendo 

«l’assenso all’imminente dichiarazione di guerra alla Germania, pose l’intervento degli USA in una dimensione ideale con il richiamo alla lotta per la democrazia, per la libertà, per il diritto delle piccole nazioni, in modo da differenziare la posizione americana da quella dell’Intesa. […] per questo Wilson non volle considerare gli USA come alleati dell’intesa e legati perciò ai trattati segreti, conclusi prima dello scoppio della guerra, ma associati, per avere le mani libere e imporre a Francia e Gran Bretagna a guerra finita le sue idee. […] lo sbocco di questo clima e di questa maturazione furono il discorso del 4 dicembre 1917 con cui Wilson chiedeva al congresso di dichiarare lo stato di guerra contro l’Austria-Ungheria e dichiarava di ricercare una pace “giusta” imposta dalle “esortazioni di tutta l’umanità”» (Meneguzzi Rostagni., 2000:86). 

Da notare come il pensiero del presidente americano sia ora nettamente cambiato se paragonato al discorso del 19 agosto 1914 quando rivolto al popolo americano dichiarava: «dobbiamo essere imparziali, nei pensieri e nei fatti, tenere a freno le nostre emozioni, e qualsiasi azione che possa essere interpretata come un favoritismo nei confronti di una qualsiasi parte belligerante» (Schmitt C. Il concetto discriminatorio di guerra, Laterza, Bari, 2008:80).

Le trattative che portarono ai trattati di Parigi furono segnate dalle divergenze tra francesi, che chiedevano ampie garanzie sulla propria sicurezza e alte indennità alla Germania, e la posizione americana. Il ruolo italiano fu molto limitato così come quello giapponese.


La fermezza di Wilson resse bene sulla scena internazionale fino a quando non venne smentito dal congresso americano, che non ratificò il trattato, infatti nel marzo del 1920 la maggioranza di 2/3 non venne raggiunta al Senato e le elezioni del novembre diedero la vittoria al repubblicano Harding, che ritornò alla politica di non entanglement che aveva accompagnato gli USA per tutta la prima fase della loro esistenza, respingendo l’internazionalismo di Wilson.


Il trattato di pace fu quindi firmato a Parigi 28 giugno 1919 da 44 stati, con l’importante eccezione degli Stati Uniti che firmarono un trattato separato con la Germania nel 1921. La conferenza di pace di Parigi fu caratterizzata da tensioni sia all’interno dei paesi alleati e associati che naturalmente con i paesi usciti sconfitti dalla guerra che solo in un secondo momento presero parte ai lavori. In seno agli alleati i problemi principali riguardavano in primo luogo le intrinseche differenze tra la diplomazia europea e quella americana bene esplicitata dall’intervento del 28 giugno 1919 di Clemenceau: «la storia degli Stati Uniti è una storia gloriosa, ma recente. Per voi cento anni sono un periodo molto lungo; ma per noi è ben poca cosa. Io ho conosciuto degli uomini che avevano visto con i loro occhi Napoleone. Noi abbiamo una nostra visione della storia che non può essere del tutto le stessa che avete voi»(De Rosa G., Convegno di pace a Parigi, contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000). 

Altra fonte di tensione riguardava l’atteggiamento verso la Russia rivoluzionaria. In questo senso la proposta dei quattordici punti di Wilson era la risposta occidentale all’internazionalismo leninista che con il decreto sulla pace del 8 novembre 1917 proponeva a tutti i belligeranti l’apertura immediata di trattative per una pace giusta e democratica. Altri punti deboli erano il vuoto istituzionale «provocato dalla disintegrazione dell’impero austro ungarico» da colmare con la creazione di stati nazionali e già la Arendt criticò questa soluzione poiché «né la lega delle Nazioni, né i trattati sulle minoranze avrebbero potuto impedire agli Stati recentemente istituiti di assimilare, più o meno coattivamente, i gruppi allogeni che vivevano nel loro territorio» (De Rosa, 2000). 

Per quanto riguarda l’Italia la questione della «vittoria dimezzata» causo non poche tensioni con gli alleati, fino ad arrivare al ritiro della delegazione da Parigi, all’impresa dannunziana a Fiume, ma che in qualche misura contribuirono anche all’ascesa del fascismo, i fasci di combattimento furono fondati nel marzo del 1919. In realtà non solo il «tradimento» di Versailles, neppure lo spettro, sia pure ritardato del leninismo, ma il fallimento tutto interno alla debolezza strutturale della nostra democrazia liberale, le logomachie ideologiche del socialismo, l’inconciliabilità fra il liberalismo moderato di Giolitti e il popolarismo cattolico, infine l’illusione che tutto sommato il fascismo si sarebbe lascito «normalizzare con il tempo, crearono quel vuoto politico attraverso il quale, con compiacenza delle autorità civili e militari dell’Italia monarchica, passarono le camice nere di Mussolini dentro la cittadella dello Stato liberale».
 Le opposte idee di pace, ma forse sarebbe meglio dire di imposizione della pace, anche se non bisogna dimenticare l’iniziale idea della possibile avanzata in occidente della rivoluzione russa, proposte da Lenin e Wilson per diversi motivi andarono incontro a fallimento. «Wilson mediocre e discontinuo nella partecipazione, più di una volta supponente nel suo atteggiamento di dar lezioni a tutti, controproducente per far breccia sui sottili e complicati meandri della tradizione politica e diplomatica europea nello stesso tempo cinica e gelosa fino al suicidio della parità internazionale superiorem non recognoscens, il presidente degli Stati Uniti, in sostanza, non riuscì a percepire l’antitesi di fondo tra ordinamento del mondo da una parte e pace punitiva-preventiva dall’altra. In questo senso le proposte della democrazia americana, proprio nel momento in cui si presentava come universalistica, non riuscirono a differenziarsi da quelle della democrazia francese, i cui antichi limiti “nazionalitari” già in partenza non andavano oltre una pace di prevenzione, di vendetta e di punizione» (Venerusto D. Wilson e Lenin ed i progetti di aree mondiali di democrazia e socialismo: apogeo e crisi. contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).

Il passaggio dall’idea dell’espansione nei paesi avanzati della Rivoluzione d’ottobre alla realizzazione del socialismo in un solo paese è anch’esso un fallimento dell’iniziale progetto marxista-leninista. 

Anche se a Parigi non ci fu nessun delegato a rappresentare la Russia bolscevica l’influenza che i fatti della Rivoluzione d’ottobre ebbero sulla conferenza di pace furono di primo piano. Le posizioni a riguardo erano eterogenee all’interno dei paesi alleati, e anche all’interno degli stessi governi, quindi si passava da posizioni favorevoli ad un massiccio intervento in Russia a fianco delle truppe Bianche tra cui possiamo annoverare il capo del governo francese George Clemenceau, il suo ministro degli esteri Stephan Pichon e il maresciallo Foch, nonché il ministro della guerra inglese Winston Churchill e Lord Curzon, ministro degli esteri che succedette a Balfour nell’ottobre del 1919, alle posizioni più moderate del premier inglese David Lloyd George e del presidente americano Woodrow Wilson che non vedevano di buon occhio un intervento armato in Russia (tra l’altro in corso e che in quel momento non prometteva buoni risultati). Queste posizioni vennero espresse già il 12 gennaio 1919 a Parigi, sei giorni prima dell’apertura ufficiale della conferenza di pace, nel contesto del Consiglio dei Dieci (Grassi L. Il congresso della pace a Parigi e la Russia, contenuto in Scottà A., a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).

I francesi erano comunque i più agguerriti tra gli alleati e vedevano nell’avanzata dei comunisti russi un serio pericolo per tutta l’Europa, ma erano anche i più fermi nel disimpegno militare di truppe francesi, situazione paradossale. Del resto anche gli altri alleati non volevano assolutamente assumere nuovi impegni militari dopo i lunghi anni di guerra appena passati. La posizione critica di Lloyd George invece poggiava sul fatto che riteneva inaffidabili i leader dei Bianchi Denikin, Kolciak. In alternativa George Lloyd proponeva, appoggiato da Wilson, una conferenza con tutte le forze che combattevano in Russia sulla base di un riscontro positivo avuto con il rappresentante sovietico nel Regno Unito Maksim Litvinov a proposito di eventuali proposte di pace. Alla proposta del premier britannico si opposero sia i francesi che gli italiani. Alla fine gli alleati si accordarono di incaricare il presidente americano alla redazione di un messaggio di invito ad una conferenza di pace da svolgersi su territorio neutrale, sull’isola di Prinkipo, da inviare a tutti i governi russi. I bolscevichi però non ricevettero mai questo messaggio, «forse perché i francesi ne bloccarono la radiotrasmissione». Nonostante ciò un messaggio senza chiaro indirizzo fu intercettato da Mosca, e Cicerin, capo della diplomazia sovietica, si impegnò a mandare delegati a Prinkipo, e si impegnava a concedere amplissime concessioni politiche ed economiche ai paesi occidentali, questo però venne inteso dagli anglosassoni come un tentativo di comprare la benevolenza dei paesi capitalisti. Inoltre il rifiuto dei Bianchi a sedersi al tavolo delle trattative con i bolscevichi impedì le condizioni materiali per lo svolgimento di una conferenza che non ebbe mai luogo. In alternativa fu inviato in Russia un delegato americano, William C. Bullit che dal 10 al 13 marzo incontro i leader sovietici compreso Lenin, che più o meno riproposero le stesse concessioni già avanzate in precedenza e il riconoscimento dei governi bianchi, «pur di assicurare la sopravvivenza del potere sovietico, i bolscevichi erano dunque pronti a rinunciare ai quattro quinti della futura Unione Sovietica!» (Grassi, 2000).

Le proposte sovietiche non furono però comunicate agli altri alleati e solo Wilson e Lloyd George ne furono a conoscenza. Passarono così i giorni imposti dai sovietici per un eventuale accordo e si arrivo al 10 aprile senza che gli alleati comunicassero alcunché a Mosca. Questo mancato accordo, che sulla carta e col senno di poi era favorevolissimo per i paesi occidentali, e le motivazioni di questo silenzio possono essere forse ricollegati alla nascita della Repubblica dei Consigli in Ungheria il 21 marzo, vista come una minaccia concreta nel cuore dell’Europa e forse anche alle notizie, false, di un’eccezionale avanzata delle truppe dei Bianchi verso il Mosca. Altra motivazione fu il fatto che Wilson voleva provare un’altra via per imporre gli interessi occidentali in Russia, attraverso un piano di aiuti alimentari proposto da Herbert Hoover, il piano di assistenza alimentare aveva come scopo finale quello di annientare il potere sovietico prendendo controllo di un settore vitale dell’economia, per questo il 7 maggio venne rifiutato dai sovietici. Alla fine di maggio i governi alleati cercavano riscontro sull’avanzata delle truppe dei Bianchi ma potevano vedere solo la disfatta che si stava profilando e la definitiva vittoria dei bolscevichi, forse anche per questo il sostegno ai bianchi fu solo di facciata. Come visto quindi il problema sovietico impegnò i leader occidentali durante tutta la durata della conferenza di pace di Parigi influenzando in modo diretto e indiretto i lavori, possiamo anche dire che non fu certamente un successo. Esemplificativo è allora il commento del capo del governo italiano Vittorio Emanuele Orlando che già il 27 marzo affermava: 

«in Russia dovevamo scegliere tra due politiche ugualmente logiche e sostenibili. La prima è quella dell’intervento: andare, se necessario, fino a Mosca e schiacciare il bolscevismo con la forza. La seconda consiste nel considerare il bolscevismo come governo de facto e nello stabilire con esso relazioni, se non cordiali, almeno più o meno normali. Noi non abbiamo saputo fare né luna né l’altra cosa, e abbiamo subito le più spiacevoli conseguenze delle due politiche. Senza fare la guerra stiamo in stato di guerra con la Russia». (Grassi, 2000).
 

Le differenti visioni politiche tra i diversi leader come visto non erano affatto secondarie e toccavano chiaramente anche le valutazione sulla Germania; quindi si passa da Wilson, che vedeva la nuova Germania come qualcosa di diverso dall’ormai crollato Reich guglielmino, ed espressione di grandissimo cambiamento erano le figure dei socialisti Ebert e Scheidemann ascesi a capo della Repubblica e del governo. Ma anche Wilson doveva confrontarsi con la propria opinione pubblica, e negli Stati Uniti era forte l’opinione soprattutto all’interno dell’elettorato repubblicano, che bisognasse vendicarsi della Germania.
 

Clemenceau aveva a prima vista una posizione più coerente e meno sfaccettata, nel suo impegno mai travisato di dover imporre alla Germania tutte le misure necessarie per la sicurezza francese, anche se non era però un «antigermanico di temperamento» (Becker J.J. Versailles: il compromesso necessario. contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000). Inoltre sapeva bene che la guerra era stata vinta grazie all’impegno americano, e l’accettazione immediata dell’armistizio tedesco, era legata al fatto che una prosecuzione delle azioni di guerra avrebbe portato nuovi soldati americani in Europa che a quel punto avrebbero vinto la guerra da soli e avrebbero potuto gestire le relazioni con gli stati sconfitti secondo il proprio punto di vista ridimensionando le pretese francesi. Quindi in generale le relazioni tra i due capi di stati furono caratterizzate da posizioni comuni, come sulla condanna di Guglielmo II e da compromessi, come sullo smembramento della Germania proposto dai francesi ma in chiara contraddizione con il principio di base del trattato di Versailles sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione. Qui torna il concetto espresso nel sesto paragrafo del primo capitolo sulla discriminazione della guerra, scrive Schmitt: 

«nella stessa misura in cui la guerra mondiale fu presentata dai nostri avversari come un azione internazionale contro uno Stato che aveva infranto il diritto internazionale, la guerra fu fatta passare anche come un’azione punitiva diretta non contro il popolo tedesco, ma soltanto contro il suo governo. Le due cose sono inscindibilmente connesse. Ciò ha trovato definitiva conferma nel fatto che la dichiarazione del presidente Wilson del 2 aprile 1917, che aveva rotto col tradizionale concetto di guerra, ha innescato simultaneamente la spaccatura dell’unità statale tedesca, proclamando, con riferimento diretto all’eliminazione del concetto non discriminatorio di neutralità: “noi non abbiamo alcun contrasto col popolo tedesco”»(Schmitt C., 2008:73).
 

Quindi all’art.227 del trattato di Versailles l’ex imperatore di Germania viene messo sotto accusa, mentre negli art. 228-230 si invita il governo tedesco a consegnare i criminali di guerra, su questo punto anche gli inglesi erano in linea con gli americani. 

La posizione del governo britannico durante i lavori fu delle volte ambigua. E questo fu causato dalla situazione politica interna all’impero britannico che dovette affrontare diverse crisi in Irlanda, India, Egitto e Mesopotamia, e infine nella stessa Inghilterra attraversata trasversalmente da rivolte dei minatori. Inoltre i delegati britannici spesso facevano trasparire pregiudizi nei confronti degli altri delegati francesi e italiani che non aiutarono certamente la buona conduzione dei lavori, anche se era pur oggettivamente vero, come spiegava il ministro degli esteri inglese Harold Nicolson, che chi non era pratico di lavori di commissione non poteva «immaginare le difficoltà a indurre un francese, un italiano e un britannico a giungere a un accordo su qualsiasi punto proposto». La strategia britannica durante la conferenza verteva su due punti: garantire sicurezza per la Gran Bretagna e l’Europa da una parte e per l’Impero dall’altra, quindi prevedeva anche un’azione di prevenzione per evitare l’egemonia di una sola potenza nell’Europa continentale, e con la Germania sconfitta questa non poteva che essere rappresentata dalla Francia «tanto che la Gran Bretagna bloccò i progetti francesi in Lussemburgo, nella Saar e nella Renania» (Adamthwaite A. La Gran Bretagna e i trattati di Versailles: un’opportunità persa? contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).

In generale gli accordi raggiunti furono un successo per la Gran Bretagna che infatti in questo periodo raggiunse la sua massima espansione territoriale (estensione dell’Impero). Fautori del successo furono sia l’abilità di George Lloyd, che quella del segretario di gabinetto Maurice Hankey.
 

La linea politica del governo italiano era basata sulla formula Patto di Londra più Fiume, che sintetizzava le richieste territoriali italiane. Con il Patto di Londra l’Italia si impegnava ad entrare in guerra al fianco dell’Intesa e in caso di vittoria gli sarebbero stati assegnati il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana esclusa Fiume, una parte della Dalmazia, numerose isole dell’Adriatico, Valona e Sasena in Albania il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, e la conferma della sovranità in Libia e nelle isole del Dodecaneso. Ora a tutti questi territori l’Italia voleva aggiungere la città di Fiume in cambio della parte settentrionale della Dalmazia. Da queste richieste nacque un vero e proprio scontro tra Wilson e il governo italiano che infatti dopo le dichiarazioni a mezzo stampa di Wilson in favore degli jugoslavi del 24 aprile ritirarono la delegazione, «i capi della delegazione italiana ritornarono in patria per consultare il parlamento, che diede loro una clamorosa approvazione in mezzo a manifestazioni di oltraggiato sentimento nazionale». 
 Al culmine della questione italiana i giapponesi presentarono le loro richieste, che consistevano nell’assunzione della posizione tedesca in Estremo Oriente che però con l’entrata in guerra anche della Cina a questo punto andavano in conflitto. Alla fine i giapponesi ebbero ragione anche della posizione filo-cinese degli americani, e riuscirono ad ottenere il loro scopo con la conseguenza che la Cina fu la sola potenza che si rifiutò di firmare il trattato di Versailles.
 

Per quanto riguarda i confini orientali bisogna tornare un attimo indietro al 3 marzo 1918 quando venne firmata la pace tra la Russia rivoluzionaria e gli imperi centrali a Brest-Litovsk, che segnava l’uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. 
 Le condizioni imposte alla Russia furono durissime infatti perdeva la Polonia Orientale, la Lituania, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina, e la Transcaucasia, più le città di Batum, Kars e Ardagan per un totale di 56 milioni di abitanti, circa il 32% della sua popolazione. I bolscevichi furono costretti a firmare il trattato perché ormai l’esercito si era letteralmente sgretolato e non c’era nessuna possibilità di contrapporsi alla forza dell’esercito tedesco, questo inoltre avrebbe messo a rischio la rivoluzione stessa.
 

«A Brest-Litovsk finirono per scontrarsi due mondi opposti e antagonisti e solo l’estremo reciproco stato di necessità permise che le trattative avessero un seguito fino alla conclusione della pace» (Biagini A. F., In russia tra guerra e rivoluzione. la missione militare italiana 1915-1918, ed. Stato maggiore dell’Esercito Ufficio Storico, Roma, 2010. p. 170), e infatti i bolscevichi vedevano la pace come un imposizione dei tedeschi, una pace «annessionista ed imperialista» rivolta contro le classi lavoratrici e contro la rivoluzione proletaria.
 Delle perdite territoriali della Russia beneficiò quasi esclusivamente la Germania, che occupò militarmente l’Ucraina, rovesciò il governo socialdemocratico in Finlandia, sostituì i governi dei soviet in Lituania e Estonia con nuovi governi appoggiati dall’esercito; l’intenzione era quella di governare non solo i cittadini tedeschi, ma tutti i tedeschi, anche quelli residenti fuori dal Reich.
 Ora, con la firma del trattato di Versailles «gli alleati abrogarono il trattato di Brest- Litovsk, ma incontrarono non poche difficoltà a ottenere il ritiro delle forze tedesche dai paesi baltici. Ne nacque una situazione confusa in cui questi vari stati cercarono di mantenere l’indipendenza opponendosi agli sforzi russi per riottenere il controllo del territorio».
 Quindi nel 1919 si erano costituiti quattro Stati baltici, Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia, ma il problema più grande era rappresentato dalla Polonia, perché a Parigi si era deciso il suo confine occidentale, ma a oriente era ora in guerra con la Russia. Dopo che l’esercito tedesco si ritirò nel febbraio del 1919 i territori dell’Ucraina e della Bielorussia rimasero privi di controllo, così nel gennaio del 1919 i socialisti ucraini istituirono un Direttorato che si unì alla Repubblica Popolare dell’Ucraina Occidentale ma nel luglio 1919 il territorio dell’Ucraina Occidentale venne annesso dalla Polonia. Sempre nel gennaio del 1919 nasceva la Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa alla quale nel febbraio del 1919 si unì la Repubblica Socialista Sovietica Lituana e formarono la Repubblica Socialista Sovietica Lituano- Bielorussa con capitale Vilnius. Proprio con l’avanzata polacca verso Vilnius iniziò la guerra russo-polacca. Successivamente la Polonia conquistò Minsk e Kiev l’8 maggio 1920. La controffensiva sovietica iniziò il 15 maggio del 1920. L’avanzata fu continua e in agosto l’Armata Rossa era alla porte di Varsavia, ed è qui che si svolse la battaglia decisiva, quando infatti la vittoria sembrava cosa fatta per i russi, i polacchi con una controffensiva respinsero i sovietici. Secondo lo storico J.F.C Fuller la battaglia di Varsavia fu una delle più importanti di sempre. Infatti se i sovietici fossero riusciti a conquistare la Polonia e a creare un repubblica dei soviet si sarebbero ricongiunti ai rivoluzionari tedeschi portando la rivoluzione nel cuore dell’Europa.
 

Ora il trattato di Versailles ha comportato delle conseguenze sul piano del diritto internazionale assestando un colpo decisivo a tutte quelle regole che erano alla base del diritto pubblico europeo, quel ius publicum europaeum, che aveva caratterizzato le relazioni tra stati europei nei tre secoli precedenti (sorvolando sul fatto che già la conferenza dell’Aja del 1899 codificando delle regole consuetudinarie aveva iniziato a modificare l’assetto fino ad allora esistente). In base a queste regole il passaggio dalla guerra alla pace avveniva in tre fasi: 1) sospensione delle attività di guerra; 2) preliminari di pace; 3) trattato di pace. Quindi le parti discutevano le vari proposte di pace fissate nei preliminari e a questo punto o si giungeva ad un contratto tra di esse, il trattato di pace, o venivano riprese le operazioni belliche. Per quanto riguarda la fine della Prima Guerra mondiale queste 3 fasi non furono rispettate; innanzi tutto le condizioni dell’armistizio firmato l’11 novembre prevedevano la resa incondizionata da parte della Germania e l’abdicazione di Guglielmo II, il ritiro dell’esercito tedesco dai territori invasi e dalla riva destra del Reno, il controllo delle teste di ponte sulla riva del Reno, la consegna di armamenti pesanti, e il trasferimento della flotta tedesca nei porti inglesi. L’armistizio fu concesso per trentasei giorni, e rinnovato poi per altri due mesi fino al 16 febbraio 1919, e infine venne prorogato con la clausola che gli alleati potessero porvi termine con un preavviso di cinque giorni, come avvenne con la nota del 18 giugno che obbligava la Germania a firmare la pace entro il 23 giugno. Quindi in realtà non fu un armistizio ma una resa incondizionata. L’armistizio condizionò i lavori di pace in tre modi: gli alleati innanzitutto, concedendo la sospensione delle ostilità, riconobbero la sopravvivenza della Germania come grande potenza, assicurando che l’accordo prima o poi sarebbe stato messo in discussione. In secondo luogo gli stessi alleati raggiungendo un accordo con i rappresentanti della nuova Germania democratica si legavano le mani, poiché divenne uno dei principali interessi alleati la difesa dal bolscevismo del governo moderato socialista. Per onorare l’armistizio ci si poteva fidare solo di un alleato stabile e moderato. In terzo luogo, l’amarezza e le recriminazioni nei confronti dell’armistizio indebolì i lavori di pace di Parigi pregiudicando la stesura finale del trattato”inoltre i preliminari di pace non ci furono, perché la Germania chiedeva una pace sulla base dei Quattordici punti di Wilson* ma non ebbe alcun riscontro dall’altra parte. Inoltre una conferenza preliminare avrebbe potuto ridurre il tempo tra armistizio e firma del trattato e accelerato i lavori. Altra novità fu la condizione preliminare dell’abdicazione del Kaiser. «Considerata dal punto di vista del diritto internazionale, era la prima affermazione di un diritto di ingerenza negli affari interni di uno Stato, di diminuzione della sua sovranità, ossia del requisito fondamentale che dava titolo ad essere membro della comunità internazionale, intesa dal 1648 come il grande club dei superiorem non recognoscentes, uguali nello status e in nessun modo subordinati l’uno all’altro»(Pastorelli P. Il congresso di Parigi e la comunità internazionale. contenuto in Scottà A., a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).

Inoltre essendo presenti alla conferenza solo i paesi vincitori le clausole non vennero concordate con i vinti. «Da un punto di vista sostanziale, l’assenza privò gli sconfitti di quel sia pur limitato margine di negoziato, ch’essi tradizionalmente avevano, nella formulazione delle clausole del trattato derivanti dall’accordo generale sui preliminari di pace».
 

Altra differenza con le precedenti conferenze di pace fu che i lavori non vennero organizzati su due livelli, uno tecnico e uno politico. Fino ad allora durante le conferenze di pace commissioni divise per materia affrontavano problemi tecnici con i rappresentanti di tutti gli Stati, che poi formulavano proposte, che venivano esaminate nelle sedute plenarie dove erano presenti tutti i partecipanti alla conferenza secondo un uguaglianza giuridica regolata dal peso politico che ogni paese aveva, e qui si svolgeva il lavoro politico. A Versailles, invece, rimasero le commissioni ed anche le sedute plenarie, ma queste non ebbero più il ruolo politico di prima; si ridussero a riunioni formali alle quali gli Stati partecipavano in modo disuguale: con cinque delegati le grandi potenze, tre le medie e uno le piccole. E «questo abbandono del principio di uguaglianza nella rappresentatività era accompagnato dall’attribuzione del potere decisionale ad un organo nuovo: il Consiglio dei Dieci, composto da due delegati per ciascuna delle cinque grandi potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone) […] Insomma questa innovazione consisteva nella reintroduzione, dopo alcuni secoli, del principio della disuguaglianza giuridica tra i membri della comunità internazionale, senza revocare o smentire quello dell’uguaglianza, ed anzi proprio quando lo si proclamava più apertamente con la formula della “democratizzazione” della comunità internazionale.

Altra novità importante inserita nel trattato stesso fu l’introduzione della categoria di giustizia, che fa l’eco a quella di guerra giusta di medievale memoria. Come scritto nella parte I del trattato che qui riportiamo in forma integrale 

«le alte Potenze contraenti, considerato che per dar sviluppo al sistema cooperativo delle Nazioni, e per garantir loro pace e sicurezza occorre: accettare certi obblighi di non far ricorso alla guerra; mantenere alla luce del sole relazioni internazionali fondate sulla giustizia e sull’onore; osservare rigorosamente le sanzioni del diritto internazionale oramai riconosciute siccome regole di condotta effettiva dei governi; far che regni la giustizia e scrupolosamente si rispettino tutti gli obblighi dei trattati, nei mutui rapporti dei popoli organizzati; adottano il seguente Patto istitutivo della Società delle Nazioni»

Ma il trattato non prevedendo cessione di sovranità ad un’istituzione internazionale, poiché la Società delle Nazioni era ancora una comunità di uguali, a chi affidava l’amministrazione di questa giustizia? Il fatto è che alcuni Stati avevano maggiori poteri di altri, i membri permanenti del consiglio, le cinque grandi potenze, che di fatto dovevano amministrare questa giustizia. E che infatti decisero sulla messa in stato di accusa di Guglielmo II, sulle riparazioni di guerra, sulle colonie tedesche ecc. ecc.
 «Il meno che si possa dire è che l’introduzione della categoria “giustizia” nella vita della comunità internazionale ebbe un esordio alquanto imperfetto»(Pastorelli P., 2000).
 

Bisogna anche ricordare che il 28 giugno 1919 a Versailles fu anche firmato un trattato tra gli alleati e la nuova Polonia che prevedeva il rispetto delle minoranze. Questo perché la comunità ebraica polacca aveva richiesto delle garanzie sul rispetto della propria caratterizzazione etnica e religiosa. Il fatto si rendeva necessario per gli ebrei polacchi poiché con il nuovo stato polacco l’amministrazione era passata in mano ai cattolici e gli ebrei nutrivano seri dubbi sul mantenimento di un controllo che fino a quel momento era gestito dagli ortodossi che avevano garantito sotto l’impero zarista il rispetto di questa nutrita minoranza. In qualche modo questa misura ricordava il sistema delle capitolazioni vigente in territorio ottomano e a cui erano sottoposti gli stranieri, secondo il quale per determinati reati venivano giudicati secondo le leggi del paese di origine e non con quelle ottomane. Questo fatto come ricorda Pastorelli fu sì di grande avanzamento ma dimostrava anche che «la costruzione territoriale realizzata non era molto perfetta [e] che far coincidere il principio del confine etnico con il confine politico era estremamente difficile»(Pastorelli P. 2000, questo principio fu applicato anche per il trattato di pace con l’Austria per la Cecoslovacchia, e nell’accordo del 1946 De Gasperi-Gruber sulla tutela della minoranza di lingua tedesca del Trentino Alto Adige, ma poi non venne ripreso nelle crisi successive).
 Gli accordi di Versailles con il senno di poi vennero criticati un po’ da tutte le parti in causa, dagli Alleati stessi e naturalmente dagli sconfitti. Ma è anche vero come ha scritto Harold Nicolson, che «data l’atmosfera del tempo e date le passioni esplose in tutte le democrazie per i quattro anni di guerra, sarebbe stato impossibile anche per un superuomo concepire una pace moderata e giusta». È altresì vero che visti gli sviluppi successivi e lo scoppio della seconda guerra mondiale il trattato fu una sconfitta per i principali vincitori, Francia e Gran Bretagna; «anziché allearsi con Francia e Italia la Gran Bretagna sfuggì agli impegni rifugiandosi nell’ambiguità». Il “mago gallese” e i suoi colleghi inseguirono, purtroppo, l’illusione di un equilibrio di potere, tralasciando il classico monito di Bismark: «in un mondo di cinque o più potenze cerca di essere una delle tre» (Adamthwaite A. La Gran Bretagna e i trattati di Versailles: un’opportunità persa? contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).

Per quanto riguarda la forma del Trattato di Versailles possiamo divederlo in modo forse un po’ forzato tra una parte iniziale di impronta wilsoniana, che contiene il Covenant della Società delle Nazioni, e una parte potremmo dire più classica basata sulla politica di potenza tipica europea. È quindi chiaro che la convivenza tra questi due approcci non poteva non generare dei gravi problemi per l’ordine nuovo che si voleva costruire. Esempio è allora l’introduzione dei mandati per il controllo da parte degli stati europei dei territori una volta inglobati nel decaduto Impero ottomano, con una popolazione ancora incapace di autogoverno e quindi bisognosa dell’esperienza europea per governarsi. Bene al di là del rapporto che ogni potenza mandataria doveva predisporre per la Società delle Nazioni ogni anno, riguardante le operazioni svolte negli stati mandatari, la differenza con la passata politica coloniale non si notava, fu solo una formalizzazione che non scalfiva minimamente l’essenza del rapporto tra potenze europee e popoli posti sotto mandato.
 

In definitiva il discorso sulle criticità del trattato di Versailles può essere ricondotto al grande tema sul principio di nazionalità. Infatti tutti i problemi sul nuovo assetto che gli stati vincitori e vinti dovevano realizzare nasce dalla componente etnica, dell’unitarietà della nazione che si voleva raggiungere, fu questo il caso per quanto riguarda l’Italia degli irredenti istriani e dalmati, per la Germania della Saar, dell’Alta Slesia e delle altre zone con una popolazione a forte maggioranza tedesca (e dei Sudeti ricca regione ceduta alla Cecoslovacchia anche per far in modo che lo stato economicamente debole non collassasse subito dopo la nascita), e per il nuovo Regno dei serbi croati e sloveni delle forti divergenze causate da un territorio unitario dove convivevano etnie, culture e religioni diverse, della Cecoslovacchia con le forti divergenze tra cechi e slovacchi. Ora, abbiamo visto come il trattato di Versailles prevedesse il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli, ma questo principio venne in modo palese negato proprio al nuovo stato tedesco, sia per le zone sottratte o messe sotto mandato alleato, e sia, e soprattutto, per quanto riguarda la volontà dell’Austria tedesca, dei socialdemocratici austriaci, di entrare a far parte della Germania. Questo doppiopesismo fu riproposto anche all’interno della Società delle Nazioni, quando da una parte si dichiarava che potevano aderire all’organizzazione tutti gli Stati, ma dall’altra si negava l’ingresso alla nuova Repubblica tedesca e agli altri stati usciti sconfitti dalla guerra, quando si dichiarava l’uguaglianza di tutti gli stati, ma all’interno del Consiglio venivano distinti tra permanenti e non permanenti.


Altra critica mossa al trattato da vari correnti di pensiero era per la sua componente più politica, «alcuni lo vedevano come l’estensione del moralismo liberale del XIX secolo, una sorta di commistione di unilateralismo britannico e idealismo americano, che difettava di realismo e di comprensione delle pressioni politiche che animavano la gente». Inoltre il trattato venne anche interpretato da alcune parti come una crociata anticomunista, «il liberalismo ostentato mascherava un disegno fondamentalmente reazionario e profondamente conservatore, che può essere definito come contenimento o, ancor più esattamente, schiacciamento del bolscevismo» . 

* 1)Convenzioni di pace palesi, in base alle quali non vi saranno accordi internazionali segreti di alcuna specie, ma la diplomazia agirà sempre palesemente e in vista di tutti. 2)Libertà assoluta della navigazione sui mari all’infuori delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, salvo per i mari che potessero essere chiusi in tutto o in parte mediante un’azione internazionale in vista dell’esecuzione degli accordi internazionali. 3)Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace e si associeranno per mantenerla. 4)Garanzie convenienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti all’estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese. 5)Libera sistemazione, con spirito largo e assolutamente imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto. 6)Sgombero di tutti i territori russi e soluzione di tutte le questioni concernenti la Russia, che assicuri la migliore e più libera cooperazione delle altre nazioni per dare alla Russia il modo di determinare, senza essere ostacolata né turbata, l’indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria politica nazionale. 7)Quanto al Belgio il mondo intero sarà d’accordo che esso deve essere sgombrato e restaurato senza alcun tentativo di limitare la sovranità di cui gode nel concerto delle altre nazioni libere. Nessun altro atto servirà, quanto questo, a ristabilire la fiducia tra le nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato per regolare le loro reciproche relazioni. Senza questo atto salutare tutta la struttura e la validità di tutte le leggi internazionali sarebbero per sempre indebolite. 8)Tutto il territorio francese dovrà essere liberato e tutte le regioni invase dovranno essere restaurate il torto fatto alla Francia dalla Prussica nel 1871, per quanto riguarda l’Alsazia- Lorena, e che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant’anni, dovrà essere riparato, affinché la pace del mondo possa ancora una volta essere garantita nell’interesse di tutti. 9)La sistemazione delle frontiere dell’Italia dovrà essere effettuata secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10)Ai popoli dell’Austria- Ungheria, il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito fra le nazioni, si dovrà dare aiuto e occasione per uno sviluppo autonomo. 11)La Romania, la Serbia e il Montenegro dovranno essere sgombrati e i territori occupati dovranno essere restituiti. Alla Serbia dovrà accordarsi un libero e sicuro accesso al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici dovranno essere fissate amichevolmente secondo i consigli delle Potenze e in base a linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite a questi Stati balcanici garanzie di indipendenza politica ed economica e per l’integrità dei loro territori. 12)Una sicura sovranità sarà garantita alle parti turche dell’impero ottomano; ma le altre nazionalità che si trovano in questo momento sotto la dominazione turca dovranno avere garantita una indubbia sicurezza di esistenza e il modo di svilupparsi senza ostacoli autonomamente. I Dardanelli dovranno essere aperti permanentemente e costituire un passaggio libero per le navi e per il commercio di tutte le nazioni sulla base di garanzie internazionali. 13)Dovrà essere stabilito uno Stato polacco indipendente, che dovrà comprendere i territori abitati da popolazioni incontestabilmente polacche, alle quali si dovrà assicurare un libero e sicuro accesso al mare e la cui indipendenza politica ed economica, al pari dell’integrità territoriale, dovrà essere garantita con accordi internazionali. 14)Una Associazione generale delle Nazioni dovrà essere formata in base a convenzioni speciali, allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica, e di integritàterritoriale ai grandi come ai piccoli Stati» (Adamthwaite A. 2000).

Si arrivò quindi ad un compromesso tra Stati Uniti da un lato e Francia e Inghilterra dall’altro. 

Il trattato, diviso in 440 articoli, prevedeva quindi che:
 secondo l’articolo 42 è proibito alla Germania mantenere o costruire fortificazioni sia sulla riva sinistra del Reno, sia sulla riva destra, all’ovest di una linea tracciata a 50 chilometri da questo fiume;
 

secondo l’articolo 43 sono parimenti vietate, nella zona definita dall’articolo 42, il mantenimento o la riunione di forze armate, a titolo permanente o temporaneo, e le manovre militari di qualsiasi natura e il mantenimento di materiali facilitazioni di mobilitazione;
 

secondo l’articolo 34 nel caso in cui la Germania contravvenga in qualsiasi modo alle disposizioni degli articoli 42 e 43 sarà considerata come autrice di un atto di ostilità di fronte alle Potenze firmatarie del presente trattato e tentante di turbare la pace nel mondo;
 

secondo l’articolo 51 i territori [Alsazia Lorena] ceduti alla Germania in virtù dei preliminari di pace firmati a Versailles il 26 febbraio 1871 e del trattato di Francoforte del 10 maggio 1871, vengono reintegrati sotto la sovranità francese a datare dall’armistizio del 11 novembre 1918;
 

secondo gli articoli 80, 81, 87 la Germania riconosce i confini di Austria, Cecoslovacchia e Polonia;
 secondo la parte VII allegato 3 la Germania cede agli alleati tutte le navi della sua flotta mercantile eccedenti le milleseicento tonnellate lorde, la metà di quelle fra mille e milleseicento tonnellate ed un quarto dei suoi battelli da pesca […] inoltre la Germania si impegna, se richiesta, a costruire annualmente e per un periodo di cinque anni, per gli alleati, duecentomila tonnellate di navi di quel tipo che le sarà indicato, e il valore di queste navi le verrà accreditato contro quello che essa deve per riparazioni;
 

secondo l’articolo 119 la Germania rinuncia a favore delle principali potenze alleate e associate a tutti i i suoi diritti e titoli , sui suoi possedimenti di oltre mare; 
 secondo gli articoli 121 e 297b i governi alleati e associati si riservano il diritto di liquidare tutte le proprietà diritti ed interessi appartenenti, alla data dell’entrata in vigore del presente trattato, a nazionali tedeschi o a società da essi controllate nelle colonie ex tedesche. Queste stesse disposizioni si applicano anche alla proprietà privata in Alsazia Lorena, il governo francese però vieta l’applicazione della disposizione nei casi in cui i cittadini tedeschi desiderino continuare a risiedere in Alsazia Lorena;
 

secondo l’articolo 160 a datare dal 31 marzo 1920 al più tardi, l’esercito tedesco non dovrà comprendere più di sette divisioni di Fanteria e tre divisioni di Cavalleria. Da questo momento la totalità degli effettivi dell’esercito degli stati che costituiscono la Germania non dovrà sorpassare centomila uomini, ufficiali e depositi compresi e sarà esclusivamente destinata al mantenimento dell’ordine sul territorio e alla polizia delle frontiere;
 

secondo l’articolo 173 qualsiasi servizio militare universale obbligatorio sarà abolito in Germania. L’esercito tedesco non potrà essere costituito e reclutato in altro modo che non sia il sistema del volontariato obbligatorio; 

secondo art 235 la commissione delle riparazioni ha potere fino al 1 maggio del 1921, per domandare in pagamento alla Germania una somma fino ad un miliardo di sterline, in quel modo che essa crederà di stabilire sia in oro come in merci , navi, titoli od altrimenti;
 

secondo l’articolo 258 la Germania rinuncia al diritto di ogni partecipazione in qualsiasi organizzazione finanziaria o economica di carattere internazionale operante in uno qualsiasi degli stati alleati o associati o in Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia, o nelle dipendenze di questi stati o nel cessato impero russo;
 secondo l’articolo 297b gli alleati si riservano la facoltà di ritenere e di liquidare tutte le proprietà, diritti ed interessi appartenenti, alla data dell’entrata in vigore del presente trattato, a nazionali tedeschi o a società da essi controllate, situate nei loro territori, colonie, possedimenti e protettorato, inclusi i territori ad essi ceduti dal presente trattato;
 

secondo le disposizioni relative al carbone e al ferro l’articolo 45 come compenso per la distruzione delle miniere di carbone del nord della Francia e come parziale pagamento del totale delle riparazioni dovuti dalla Germania per i danni risultanti dalla guerra , la Germania cede alla Francia, in pieno, assoluto possesso, con diritto esclusivo di sfruttamento, senza alcuna limitazione, e liberate da ogni debito o carico di qualsiasi natura, le miniere di carbone situate nel bacino della Saar le miniere «sono cedute alla Francia in via assoluta» (Keynes J. M. Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Seller, Torino, 1983. p.71). L’amministrazione del distretto è invece affidata alla Francia per 15 anni dopo di che la popolazione tramite referendum potrà scegliere la sovranità futura. La Slesia del Nord dovrà, salvo quanto possa essere deciso in contrario dal referendum , passare alla Polonia;
 secondo il paragrafo II dell’allegato V del capitolo delle riparazioni «la Germania consegnerà alla Francia sette milioni di tonnellate di carbone l’anno per lo spazio di dieci anni. Inoltre la Germania consegnerà alla Francia una quantità di carbone uguale alla differenza fra la produzione annuale d’ante guerra delle miniere del nord e del passo del Calais, distrutte per fatti di guerra, e la produzione del bacino coperta da queste miniere durante l’annata corrente. Quest’ultima fornitura sarà effettuata per dieci anni e non sorpasserà venti milioni di tonnellate all’anno nei primi cinque anni seguenti. Resta inteso che ogni cosa sarà fatta, per la rimessa in attività delle miniere del nord e del passo del Calais». Secondo le disposizioni finali relative al carbone la Germania consegnerà carbone o equivalente in coke: sette milioni di tonnellate alla Francia ogni anno per dieci anni; otto milioni di tonnellate al Belgio tutti gli anni per dieci anni; per quanto riguarda l’Italia una quantità annua crescente anno per anno da quatro milioni e mezzo di tonnellate nel 1919-1920 fino a otto milioni e mezzo di tonnellate nel 1928-29; tutto questo per un totale di venticinque milioni di tonnellate.
 secondo gli articoli 264, 265, 266, 267, la Germania si impegna ad accordare agli stati Alleati ed Associati per un periodo di cinque anni, il trattamento della nazione più favorita. Ma essa non ha diritto ad eguale trattamento. Non può stabilire alcuna imposta sulle importazioni dagli stati Alleati ed Associati maggiore della imposta più favorevole prevalente prima della guerra; l’esclusione del Lussemburgo dall’Unione doganale tedesca; 

secondo l’articolo 250 la Germania deve cedere agli Alleati cinquemila locomotive e centocinquanta mila vagoni ferroviari in buono stato;
 secondo gli articoli 338 e 334 in Germania la gestione dei fiumi condivisi con altri paesi è affidata a commissioni internazionali;
 secondo l’articolo 102 Danzica è costituita città libera;
 secondo l’articolo 227 «le potenze alleate pongono in stato di accusa Guglielmo II di Hohenzollern, ex imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e l’autorità sacra dei Trattati» questo articolo noto anche come bill of attainder, fu un atto legale volto specificatamente a punire l’imperatore tedesco Guglielmo II (Laughland J. Guerra atotale in nome del bene. articolo contenuto in Limes, 2014-1914 L’eredità dei grandi imperi del 5 maggio 2014);

secondo l’articolo 228 «il governo tedesco riconosce alle potenze alleate e associate l’autorità di tradurre dinanzi ai loro Tribunali militari, le persone accusate di aver commesso atti contrari alle leggi e ai costumi della guerra. Le pene previste dalle leggi saranno applicate alle persone riconosciute colpevoli. Questa disposizione si applicherà ad onta di qualsiasi procedura dinanzi a una giurisdizione della Germania o dei suoi alleati. Il governo tedesco dovrà consegnare alle potenze alleate o associate o a quelle di esse che ne faranno richiesta, tutte le persone, accusate di aver commesso un atto contrario a qualsiasi legge o costume della guerra, che siano designate nominativamente, oppure per grado, oppure per la funzione o l’impiego a cui queste persone erano state adibite dalle autorità tedesche»;
 secondo l’articolo 229 «gli autori di atti contro i sudditi di una delle potenze alleate e associate, saranno tradotti dinanzi ai Tribunali di questa potenza. Gli autori di atti commessi contro i sudditi di varie potenze alleate e associate, saranno tradotti dinanzi ai Tribunali militari, composti di membri appartenenti ai Tribunali militari delle porenze interessate. In ogni caso l’accusato avrà diritto di nominarsi il suo avvocato»;
 secondo l’articolo 230 «il governo tedesco si impegna a fornire tutti i documenti e informazioni di qualsiasi natura, e di cui la produzione sia giudicata necessaria, per l’istruttoria completa dei fatti incriminati; la ricerca dei colpevoli, e l’esatto apprezzamento delle responsabilità»;
 

secondo l’articolo 231 i governi alleati e associati dichiarano e la Germania riconosce che la Germania e i suoi alleati sono responsabili per esserne stati la causa di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai governi alleati e associati e i loro nazionali in conseguenza della guerra che è stata a loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati. 

Fine della Prima guerra mondiale e dello Jus Publicum Europaeum

Con la Prima guerra mondiale si assiste ad un cambiamento totale della guerra. Il conflitto infatti non è paragonabile a tutti i conflitti precedenti, combattuti da eserciti mercenari in campi di battaglia prestabiliti, ora la guerra si fa globale. Scrive Jünger in La battaglia materiale 

«lo stile di un’epoca si manifesta in battaglia con la stessa chiarezza con cui si rivela in un’opera d’arte o nel volto di una città. Per tale ragione nessuna guerra è uguale all’altra, in ciascuna si combatte in nuove forme e con nuovi mezzi in vista di nuovi obiettivi, e in ciascuna fa la sua entrata sulla scena cruenta degli eventi un nuovo tipo d’uomo» (Jünger E., La mobilitazione totale, in Scritti politici e di guerra, Libreria editrice goriziana, Gorizia, 2003, p.65).

Jünger conia il termine mobilitazione totale per descrivere quello che è «un atto con cui il complesso e ramificato pulsare della vita moderna viene convogliato con un sol colpo di leva nella grande corrente dell’energia bellica». Jünger nell’interpretazione che ne dà Patocka della Prima guerra mondiale va a ricercare il suo elemento positivo, quale evento in se stesso dotato di senso, la sua «dimensione cosmica ed epocale, il suo caratterizzarsi come fondamentale mutamento dell’esistenza umana». Con mobilitazione totale è tutta la società che deve partecipare allo sforzo bellico, quindi oltre all’esercito regolare, si può ben parlare di un esercito «delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto». Inoltre con questo nuovo modello di guerra anche il soldato stesso deve cambiare, il suo impegno deve essere totale, scrive Guerri: 

«sul piano individuale il simbolo e il modo effettivo di operare della guerra non è più rappresentato dal solo braccio che usa l’arma: ora è la totalità dell’individuo, il suo corpo e la sua anima, che sono disponibili a essere utilizzati come arma. Tutto ciò è reso possibile dalla sua totale sottomissione alla “legalità” del sistema del lavoro. Analogamente, sul piano collettivo la massa non è sufficiente che sia coinvolta in senso “nazionalistico”, bensì è necessario che si muti in “massa disciplinata” e cioè che sia assolutamente “disponibile” a funzionare per i nuovi scopi bellici secondo le leggi del lavoro»(Guerri M., La mobilitazione globale. Lo spazio planetario della guerra in Ernst Jünger saggio contenuto in Conflitti globali. La guerra dei mondi n. 1, p. 36)

Per Jünger la distinzione tra tempo libero e tempo del lavoro viene meno, perché il lavoratore è una funzione del sistema che quando non lavora consuma e utilizza servizi, per tornare al concetto di guerra in senso positivo Guerri specifica, utilizzando anche il pensiero di Galli esposto in La “mobilitazione totale” e il nichilismo, di cui riporta alcuni passaggi, che: 

«la Mobilitazione totale in quanto riconduzione di tutta la vita sub specie bellica non è solo descrivibile a livello «negativo» come mera distruzione dei vecchi confini tra campagna e città, tra umano e materiale, tra armamento regolare o irregolare, tra dimensione convenzionale e non convenzionale dello scontro armato, ma è concepibile in modo «positivo», come configurarsi di un nuova dimensione spazio-temporale dominata dalla normalità della guerra che scorre nel corpo della collettività. Carlo Galli ha osservato che Mobilitazione totale «significa essenzialmente che la prospettiva e la rappresentazione della guerra governano anche lo stato di pace», ovvero che il ritmo della Mobilitazione «è anche politica della mobilitazione, e che tale politica ha per scopo essenziale la potenza, la possibilità della guerra»».

Questo nuovo modo di intendere la guerra, si può però ritrovare anche in Schmitt, per quanto riguarda l’utilizzo dell’areonautica nelle operazioni militari, che porta una rivoluzione spaziale, dopo la terra e il mare ora anche l’aria diventa un campo nel quale operare una terza dimensione da conquistare, controllare. Per Schmitt con questo nuovo elemento a «i due mitici animali, il Leviatano e Behemoth, se ne sarebbe allora aggiunto un terzo, un grande uccello».

Solo oggi diventa per noi possibile un’idea che sarebbe stata impossibile in qualsiasi altra epoca e che un filosofo tedesco contemporaneo ha così formulato: il mondo non è nello spazio ma lo spazio è invece nel mondo. [il riferimento è a Heidegger]. La seconda constatazione riguarda il rapporto elementare di terra e mare. Il mare non è più oggi un elemento come ai tempi dei cacciatori di balene e dei corsari. La tecnica odierna dei mezzi di trasporto e di comunicazione lo ha trasformato in uno spazio nell’odierno senso del termine. Oggi, in tempi di pace, ogni armatore è in grado quotidianamente e ora per ora di conoscere in quale punto dell’oceano la sua nave in alto mare si trovi. In tal modo, a paragone dell’epoca della navigazione a vela, il mondo del mare cambia in modo elementare per l’uomo. Ma se è così, allora viene anche a cadere la separazione di mare e terra sulla quale fu costruito il legame, sino ad oggi esistito, di dominio del mare e dominio del mondo. Viene meno il fondamento dell’appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino ad oggi valido. Al suo posto cresce inarrestabile e irresistibile il nuovo Nomos del nostro pianeta. Lo evocano le nuove relazioni dell’uomo con gli antichi e i nuovi elementi, e lo impongono a forza le mutate dimensioni e i nuovi rapporti dell’esistenza umana. Molti vi vedranno solo morte e distruzione. Alcuni crederanno di vivere la fine del mondo. In realtà stiamo solo vivendo la fine del rapporto, sin ad oggi esistito, tra terra e mare. Ma l’angoscia umana di fronte al nuovo è altrettanto grande quanto quella davanti al vuoto anche se il nuovo è superamento del vuoto. Per questo molti vedono solo insensato disordine dove in realtà un nuovo senso è in lotta per il suo ordinamento. L’antico Nomos viene certamente meno e con esso un sistema complessivo di misure, norme e rapporti che ci sono stati trasmessi. Ma ciò che avanza non è per questo, però, solamente mancanza di misura o un niente nemico del Nomos. Anche nella lotta accanita tra forze antiche e nuove sorgono giuste misure e si plasmano sensate proporzioni.. 

Anche qui ci sono dèi e governano, grande è la loro misura. 

Tornando a Jünger e alla mobilitazione totale, il suo nucleo sta nell’«indissolubile rapporto tra guerra e lavoro» e della nuova «dimensione spazio-temporale» che emerge all’interno «del sistema-lavoro», in questo nuovo sistema inoltre si viene a verificare la «dissoluzione dell’individuo borghese prodotta dal tipo umano del Lavoratore […] l’immagine stessa della guerra finisce per sfociare in quella ben più ampia, di un gigantesco processo lavorativo». In quest’ottica allora anche la concezione di guerra di Clausewitz viene meno e la politica diventa la continuazione della guerra con altri mezzi, spiega quindi Guerri, riprendendo sempre Jünger che 

«la politica perde la capacità di controllare e limitare la guerra poiché tutte le costruzioni politiche della modernità vengono svuotate di senso e rese funzionali al dispiegamento della mobilitazione totale. L’«energia bellica» è indifferentemente operante nei diversi punti dello spazio planetario del Lavoratore. Nell’«impiego assoluto dell’energia potenziale, che trasforma gli stati industriali belligeranti in fucine vulcaniche, si annuncia nel modo forse più evidente il sorgere dell’età del lavoro: esso fa della Guerra mondiale un evento storico più significativo della Rivoluzione francese» (Jünger 2003:118).

Ora la guerra della mobilitazione totale da fatto limitato quale era sempre stato storicamente, diventa di fatto illimitata. Scrive Guerri che: 

«È proprio questa uniforme e illimitata «disponibilità» all’interno delle singole nazioni che costituisce il senso più profondo della Prima guerra mondiale attribuendo a questo evento, scrive Jünger, un aspetto di «natura culturale». Così come per quanto «illuminanti» le spiegazioni di genere economico si rivelano «inadeguate» per esprimere il senso profondo di imprese» quali la costruzione delle piramidi egizie o delle cattedrali gotiche, analogamente l’«apparire senza scopo» della Mobilitazione totale può essere compreso solo se concepito quale evento «di tipo culturale» (Guerri M., op.cit. 42) 

Per quanto riguarda i regimi politici vigenti nei singoli stati che parteciparono alla Prima guerra mondiale, Jünger se ne disinteressa, nella sua concezione infatti gli Stati potevano essere separati solo in base a chi riuscisse o meno a realizzare la Mobilitazione totale, dove la Germania non era stata in grado di realizzarla e infatti 

«la Germania doveva inevitabilmente essere sconfitta […] perché pur avendo preparato con tutto lo scrupolo possibile la sua mobilitazione parziale continuava a precludersi la via di quella totale, e perché l’intima natura della sua macchina bellica le consentiva di raggiungere, sopportare e soprattutto sfruttare solo un successo di proporzioni limitate» (Jünger E. 2003:124)

La mobilitazione totale riuscì invece ad un altro paese come gli Stati Uniti e curiosamente essendo questo un paese democratico 

«In questo senso il «liberalismo» democratico appare come la condizione politica più adeguata: la «celebre battuta involontaria sui “pezzi di carta“» che Bethmann Hollweg pronuncia dopo avere invaso il Belgio e a fronte delle proteste dei belgi stessi che si appellano ai trattati che garantivano la neutralità alla nazione, mostra che il cancelliere non aveva compreso «che oggi un pezzo di carta come quello su cui è scritta la costituzione ha un significato simile a quello che ha per i cattolici un’ostia consacrata», sicché se «l’assolutismo può permettersi di stracciare i trattati la forza del liberalismo consiste nell’interpretarli». Questa capacità di “interpretazione” dei trattati appare come la forza determinante di una nazione democratica già da tempo disponibile alla Mobilitazione totale come gli Stati uniti». 

In base a questo quindi la forma migliore al dispiegamento della mobilitazione totale è la democrazia liberale che però non crea allo stesso tempo un dominio chiaro, uno spazio nel quale applicare il diritto quindi «questo significa che nel mondo della democrazia universale che procede verso una Mobilitazione di carattere planetario non esiste un luogo di potere in base a cui governare la guerra e la pace, né criteri di giudizio secondo cui valutare la moralità e la giustizia di un azione di tipo imperiale da parte di un’organizzazione statale». 

Per quanto riguarda l’ambito del diritto nei diversi tipi storici di guerra, Jünger in L’operaio. Dominio e forma scrive: «Nello spirito del principio di nazionalità, l’acquisto di un esigua striscia di territorio al confine è molto meno legittimo di quanto non sia, nel sistema dell’equilibrio dinastico, l’acquisto di un intero regno in seguito a un matrimonio. Nelle guerre di successione si tratta quindi di due contendenti, entrambi di riconosciuto diritto, e uno di essi deve essere scelto secondo un’interpretazione che tende a prevalere sull’altra. Nelle guerre nazionali, si tratta di due specie di diritto, in senso generale. Così, anche le guerre nazionali ci portano allo stato di natura». 

In quest’ottica, mancando un tribunale superiore esterno alla nazione (la Società delle nazione è troppo debole per questo compito) «qualsiasi sforzo teso ad aver validità oltre i confini nazionali non può essere fondato che sul “mero dispiegamento di forze”», inoltre per Jünger con questa svolta la guerra perde la forma di rito che l’aveva caratterizzata per secoli divenendo «amorale e non- cavalleresca», una guerra priva di regole. Seguendo Galli «nell’età globale guerra e politica non formano spazio, in senso politico moderno, westfaliano», lo stato non produce più politica e storia e quindi scrive Jünger in Lo stato mondiale «con il raggiungimento della sua grandezza finale, lo stato non conquista soltanto la sua massima estensione spaziale, ma anche una nuova qualità. Lo stato in senso storico cessa di esistere». Il cambiamento delle modalità della guerra date dalle nuove tecnologie a partire dalla prima guerra mondiale è così descritta da Jünger: «L’età del colpo mirato ormai è alle nostre spalle. Il comandante di una squadriglia aerea che a notte fonda impartisce l’ordine di bombardare non fa più alcuna distinzione tra militari e civili, e la nuvola di gas letale passa come un’ombra su ogni forma di vita. Ma la possibilità di siffatte minacce non presuppone una Mobilitazione parziale o generale: presuppone una Mobilitazione totale, che si estende anche al bambino nella culla. Esso è minacciato come tutti gli altri se non addirittura di più» (Jünger E., 2003:121).

In questa descrizione sta tutta l’atrocità della nuova «guerra dei Lavoratori» qui notiamo tutto lo «svuotamento di senso dello ius publicum europaeum e della organizzazione statale che sulla limitazione e sulla regolamentazione della guerra si fondava» (Guerri M., op.cit. pag.47). Per Jünger inoltre con questi cambiamenti la figura del soldato viene sostituita da quella del partigiano perché i conflitti in questa nuova forma tenderanno sempre di più ad essere irregolari e quindi porteranno anche alla fine dell’esercito di massa e alla figura tradizionale del soldato, che può ora essere ad un tempo simile alla figura del «poliziotto», del tecnico, dello «scorticatore», del «macellaio». La guerra tra stati diventa ora una guerra civile mondiale, Weltbürgerkrieg. Scrive Schmitt in Il nomos della terra: «Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensione abissali» (Schmitt C, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 2011 p.430). 

Successivamente nella premessa all’edizione italiana de Le categorie del “politico” del 1971 scrive 

«oggi l’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; […] al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale (Weltbürgerkriegpolitik)»;

anche se questa spiegazione è stata data da Schmitt nel 1971 è bene ricordare che il primo nucleo teorico sulla nuova forma della guerra è rintracciabile nell’opera Der Begriff des Politischen del 1927. 

L’Europa dal Concerto delle grandi potenze alla Prima guerra mondiale

Come abbiamo visto durante la respublica cristiana ai vertici della società si ergevano l’imperatore e il papa, le due entità sovrane vennero meno con la nascita delle monarchie assolute, e con la pace di Westfalia del 1648 gli Stati diventano i protagonisti della nuova organizzazione delle relazioni internazionali, protagonisti senza limitazione alcuna nella propria sovranità. La convivenza tra Stati veniva assicurata dal rispetto dello jus gentium evolutosi a partire da Francisco de Vitoria e dal principio di equilibrio «legge di fisica politica internazionale orientata verso la stabilità delle relazioni internazionali» e che tende a neutralizzare l’espansione politica di uno o più Stati al fine di mantenere lo status quo in una determinata area (Meneguzzi Rostagni C. L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Cedam, Padova, 2000 p. 3). Principio di equilibrio che si era sviluppato dapprima in Italia nel XV secolo e che poi si espanse al resto d’Europa nei secoli XVI e XVII. Questo principio di politica internazionale non impedì guerre tra i vari stati europei ma le limitò nella loro distruttività. A partire dal XVII secolo furono molti i progetti per la limitazione e eliminazione della guerra da quello dell’abbe di Saint-Pierre a quello di Kant.

Poi con gli sconvolgimenti portati dalla rivoluzione francese e da Napoleone altri autori come Augustin Thierry e Adam Czartorysky teorizzarono progetti di una confederazione di Stati europei che tendevano alla limitazione della guerra tramite il ricorso alla mediazione e all’arbitrato. Su queste basi nacque l’alleanza tra Gran Bretagna e Russia stipulata a Londra il 30 marzo del 1805 secondo la quale alla fine delle guerre contro Napoleone si sarebbe dovuto ristabilire l’ordine tramite un congresso generale; «da queste premesse, per opera di Castlereagh, si attuò, dopo il 1815, il sistema dei congressi, che portò alla codificazione di norme di diritto internazionale nonché al riconoscimento di un direttorio europeo». Da precisare che il nuovo ordine fu concepito già a partire dal 1813 e poi sancito dal congresso di Vienna come affermò infatti Friedrich von Gentz «le potenze europee sono state unite sin dal 1813 non da una alleanza nel vero senso della parola ma da un sistema di coesione fondato su principi generalmente riconosciuti e su trattati sui quali ogni stato grande o piccolo aveva trovato il suo posto». Offrendo la sua mediazione al raggiungimento di un accordo con Napoleone, il Matternich si fece rappresentante del bisogno di pace dell’Europa. Ma di fronte al rifiuto di Napoleone fu inevitabile la nascita di un alleanza tra Austria, Prussia e Russia. Non mancarono comunque tra queste potenze continentali più la Gran Bretagna delle tensioni, che portarono ad un avvicinamento tra Matternich e Castlereagh in un ottica di limitazione dell’influenza russa in Europa. Alla fine l’accordo decisivo fu siglato a Chaumont il primo marzo 1814 e «costituì il momento decisivo per il nascente concerto delle grandi potenze» . 

Per assicurare all’Europa una pace duratura la prima pace di Parigi prevedeva per la Francia misure molto limitate e mirava esclusivamente al ristabilimento dell’equilibrio tra le potenze europee, veniva quindi ancora una volta ripreso lo spirito che regolava le relazioni tra gli stati europei a partire dalla pace di Westfalia. Certo l’ordine raggiunto a Vienna superava, potremmo dire per intensità, quello raggiunto a Westfalia, perché introduceva principi di giustizia condivisa tra gli Stati, e la volontà collettiva degli Stati veniva posta in primo piano riguardo alle decisioni politiche da prendere sui trasferimenti di territori, sulla nascita dei nuovi stati e sugli eventuali cambiamenti di regime e di governo. Inoltre la prassi dei colloqui bilaterali venne sostituita con il sistema delle conferenze. Da tutto questo emergevano «due concetti , quello di equilibrio e quello di comunità, di mondo comune, l’Europa, che andava riordinata secondo i principi di equilibrio, balance of power, legittimità e grandi potenze». Grandi potenze che ricevettero il loro mandato alla riorganzzazione del continente europeo da un articolo segreto della pace di Parigi, che quindi superava la tradizionale parità tra gli Stati. Il fatto che però questo accordo venne mantenuto segreto fece il gioco di Talleyrand che riuscì a far ammettere la Francia «fra coloro che decidevano». Quindi alla fine furono le delegazioni delle cinque grandi potenze composte dai primi ministri e dai ministri degli esteri a condurre il congresso. Le delegazioni furono così composte da: Matternich e il barone di Wessemberg per l’Austria, Talleyrand e il duca di Dalberg per la Francia, Lord Castlereagh e il duca di Wellington per la Gran Bretagna, il conte Stackelberg e il conte Nesselrode per la Russia, il principe Hardenberg e il barone Humboldt per la Prussia. Principio guida del congresso fu la restaurazione dello status quo secondo il principio dinastico. Primo atto fu la restaurazione del regno del Borbone Luigi XVIII in Francia. La posizione inglese al congresso fu neutrale, quella della Prussia «debole», più decisa quella russa. Gli scontri maggiori tra le potenze si ebbero sulla soluzione da applicare ai territori polacchi, alla fine la quadra venne raggiunta con la creazione di un regno di Polonia sotto lo zar di Russia, con una parte della Sassonia concessa alla Prussia e una parte della Galizia concessa all’Austria (che inoltre si espanse in Nord Italia e Dalmazia), gli ingrandimenti di Prussia e Russia vennero equilibrati a nord dalla cessione della Norvegia alla Svezia, e dei ducati di Holstein e Lauenburg alla Danimarca. Per quanto riguarda gli altri stati la Confederazione germanica venne posta sotto la presidenza austriaca, separata dalla Francia dal regno dei Paesi Bassi comprendente il Belgio. La confederazione svizzera fu dichiarata indipendente. Il regno dei Savoia acquisì il possesso di Genova e della Savoia. Il regno delle Due Sicilie e lo Stato della Chiesa vennero restaurati. Altro tema che fu affrontato a Vienna su l’abolizione della tratta degli schiavi, anche se ci vollero parecchi anni per l’adeguamento della disposizione. 

Con il ritorno di Napoleone sul continente e la definitiva battaglia di Waterloo il 20 novembre 1815 fu conclusa a Parigi una seconda pace più dura della prima. Ma non fu comunque così dura da compromettere quello che era ancora lo Stato più popoloso d’Europa. Venne previsto il pagamento di un’indennità di guerra e l’occupazione di una parte del territorio francese, ma non fu comunque una pace punitiva. Scrisse il Kissinger in Diplomazia della Restaurazione che «per la seconda volta, si ebbe una pace di moderazione» . 

Sempre a Vienna il 26 settembre fu firmata la dichiarazione che fondava la Santa Alleanza tra Alessandro I di Russia, Federico Guglielmo III di Prussia e Francesco II d’Austria, contraddistinta dalla sua visione repressiva e antiliberale, che ebbe certo un ruolo nella repressione dei moti italiani del 1820-21, ma che in effetti seguendo il Croce «non esisté mai altrove che nella fantasia dello czar Alessandro I» (Croce B., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Adelphi Edizioni, Milano, 2007, p. 70), mentre il Castlereagh la definì «un documento sublime di misticismo e follia» (Meneguzzi Rostagni 2000:24). 

Con il congresso di Aquisgrana del settembre del 1818, con l’ingresso ufficiale della Francia nell’oligarchia, il concetto di grandi potenze si affermò in modo definitivo. Anche se le posizioni incentrate su una politica repressiva della Santa alleanza fecero fallire la Quadruplice, il sistema basato sulle grandi potenze, la diplomazia del concerto d’Europa riuscì a mantenere l’ordine e l’equilibrio per un secolo attraverso congressi, conferenze e riunioni ufficiose. Strumento principale fu la neutralizzazione di territori e , benché meno usato, quello dell’internazionalizzazione. Il nuovo sviluppo coloniale fu centrale nel perpetuarsi del concerto. 

Successo del concerto fu anche la risoluzione senza scontri dell’indipendenza del Belgio, e nella risoluzione del problema greco con la nascita nel 1832 del regno greco sotto Otto di Baviera. 

Con la rivoluzione siciliana del gennaio del 1848 iniziò una fase rivoluzionaria che interessò tutta l’Europa continentale ad eccezione della Russia. L’opposizione ai restauratori di Vienna era palese nelle insurrezioni scoppiate in tutta Europa, il nazionalismo faceva la sua comparsa nella scena politica, così come le rivendicazioni liberali mai sopite della classe borghese. Ruolo centrale in questa fase rivoluzionaria fu svolto dal Palmerston che invitò alla moderazione il governo francese, mediò tra l’Austria e il Piemonte, ma suo obiettivo principale era il mantenimento dell’equilibrio e per questo non appoggiò le rivendicazioni nazionali di ungheresi e italiani, per non destabilizzare l’Austria, nucleo dell’equilibrio centro-europeo, così come la Russia garantì il mantenimento dello status quo nell’Europa dell’est. Per sintetizzare si può parlare del 1850 come anno della seconda restaurazione per l’annullamento di tutte le conquiste costituzionali ottenute dai rivoluzionari. 

Successiva crisi tra le potenze europee si ebbe con l’occupazione russa nel gennaio 1853 dei principati danubiani, che produsse la fine dell’alleanza tra Russia, Austria e Prussia nonché l’opposizione di Francia e Gran Bretagna, le quattro potenze redassero quindi la nota di Vienna, un programma che il sultano avrebbe presentato allo zar, con l’impegno a sostituire il concerto d’Europa all’egemonia della Russia nell’area. Il tentativo però fallì e si arrivò allo scontro quando il 28 marzo 1854 con la dichiarazione di guerra francese e britannica, a cui poi si aggiunse l’Austria, la guerra russo-turca si estese alle altre potenze. Motivo di scontro principale durante la guerra di Crimea fu sul controllo degli stretti, e fu essenzialmente una guerra contro la Russia più che in aiuto dell’Impero ottomano. Il congresso per la pace si aprì a Parigi dopo che la Russia aveva accettato l’ultimatum austriaco. La sede fu importante perché rendeva chiaro il cambiamento che era avvenuto rispetto al congresso di Vienna, ora il mediatore era Napoleone III che voleva ottenere dalla pace il massimo guadagno per i francesi, e la revisione degli accordi di Vienna. Nel marzo del 1856 si stipulò il trattato che prevedeva indipendenza e integrità dell’impero ottomano, garantita dalla volontà generale delle potenze europee, e la neutralizzazione del mar Nero e l’internazionalizzazione dei principati rumeni, la creazione della commissione europea del Danubio. 

Nei quindici anni successivi alla fine della guerra di Crimea si verificarono altre quattro guerre tra cui la terza guerra d’indipendenza italiana, e la situazione politica rispetto al clima che si era venuto a creare durante il congresso di Vienna era totalmente cambiato. I nuovi attori della politica europea, Napoleone III, Gorcakov, Cavour e Bismarck adottarono un approccio politico realista e «nelle loro mani la diplomazia divenne uno strumento non più per conservare la pace, ma per promuovere la guerra» (Meneguzzi Rostagni 2000:44). Con la fine della Quadruplice le alleanze vennero organizzate per scopi aggressivi e i primi conflitti furono localizzati in Italia (prima) e in Prussia (poi) , la politica di potenza sostituì la politica di equilibrio. Con il definitivo allontanamento dell’Austria dalla Russia si verificò un’avvicinamento della politica inglese verso le posizioni austriache, mentre la Francia stringeva l’occhio alla Russia. Sul fronte diplomatico la Russia, favorita dalla Francia di Napoleone III, cercò di organizzare un congresso per risolvere le tensioni tra l’Austria da una parte e il Piemonte e la Francia dall’altra, tentativo fallito per le rigidezze austriache. Dopo l’armistizio di Villafranca del luglio 1859, che mise fine alla seconda guerra d’indipendenza italiana, e che poi portò alla pace di Zurigo del novembre 1859, conclusosi con la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna come principale cambiamento, Napoleone III cercò di organizzare di nuovo un congresso, ma il tentativo anche questa volta fallì, per il rifiuto di Napoleone III di prendere le distanze dalle posizioni di La Guerronniére che volevano uno stato pontificio privato del proprio potere temporale, cosa che non poteva essere accettata dall’Austria. Altri tentativi di riunirsi in congresso furono fatti nel 1863, in seguito alla rivolta polacca, e nel 1864, per cercare di risolvere le tensioni tra Danimarca e Prussia, e prima della guerra austro-prussiana del 1866, ma il congresso non vide mai la luce. 

Dopo la vittoria prussiana a Sodowa e il conseguente trattato di Praga del 23 agosto 1866, fu istituita la confederazione degli stati tedeschi a nord del Meno sotto il controllo prussiano, con Bismark cancelliere e una confederazione degli stati indipendenti del sud nell’orbita politica prussiana e alleati anche militarmente. L’Italia seppur sconfitta sul campo dall’esercito austriaco dopo la vittoria prussiana ottenne come previsto dagli accordi di alleanza con la Prussia il Veneto ma non Trento e Trieste che saranno poi rivendicate dall’agitazione irredentista. L’Austria non venne però né umiliata né venne messo in discussione il suo ruolo, questo per merito di Bismark che riuscì a dissuadere lo stato maggiore dell’esercito da un’eventuale umiliante marcia su Vienna. 

Gli anni che vanno dal 1866 al 1871, furono fondamentali per le sorti dell’Europa. Innanzitutto perché semplificarono il quadro politico con la nascita degli stati tedesco e italiano, e poi perché è in questo momento che lo stato tedesco inizia a porre le basi per la politica di potenza che segnerà in modo fondamentale la storia europea. Centrale fu la figura del cancelliere Otto von Bismark, junker prussiano, conservatore ma allo stesso tempo in grado di dotare il nuovo stato tedesco della legislazione sociale più avanzata d’Europa. Suo scopo principale divenne ben presto l’unificazione dello stato tedesco, e sapeva bene anche che non si sarebbe ottenuto che «col sangue e col ferro». 

Anche il metodo per raggiungere lo scopo non fu dei più ortodossi, infatti il Bismarck, non si fece problemi a sospendere la Costituzione per quattro anni durante i quali riorganizzò l’esercito in maniera tale da farlo diventare il più evoluto ed efficiente d’Europa, così come con la stessa semplicità restaurò la Costituzione una volta ottenuto il suo scopo. Le posizioni degli altri stati europei sulla nascita del nuovo unitario stato tedesco andarono dalla generale soddisfazione britannica, che vedeva di buon occhio un forte stato prussiano perché scorgeva nella Francia e nella Russia i principali disturbatori della pace, «l’Inghilterra, quindi, come la Russia, mantenne nella questione un atteggiamento passivo» mentre la politica francese in questo periodo «può essere definita solo come incompetente, in evidente contrasto con l’eccezionale abilità di Bismarck”» che «era già giunto alla conclusione che un aperto conflitto con la Francia era un completamento necessario del suo piano generale» (Albrecht-Carrié René, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Roma-Bari, 1978, pp. 148-150).

L’ormai quasi certa possibilità di guerra franco-prussiana sembrò in qualche modo affievolirsi quando Bismarck acconsentì alla richiesta francese di smobilizzazione della guarnigione prussiana in Lussemburgo, che venne neutralizzato, come il Belgio. Bismarck prese tempo in attesa di risolvere la questione con la Francia e intanto strinse un alleanza con la Russia che si impegnava a neutralizzare l’Austria in caso di conflitto franco-prussiano. La Francia invece non riuscì a concludere nessuna alleanza con l’Austria, mentre la Gran Bretagna vedeva più pericoli nella Francia di Napoleone che nella Prussia di Bismarck. Quindi sul piano internazionale Bismarck era forte dell’alleanza con la Russia mentre sul piano interno nel 1868 aveva ottenuto l’unione doganale con gli stati tedeschi del sud e il parlamento unitario, lo Zollparlament (parlamento dell’unione doganale). Lo scoppio della guerra avvenne a seguito della pubblicazione da parte di Bismarck del dispaccio di Ems in cui si poterono constatare reciproci insulti tra le parti in causa. In realtà il documento fu opportunamente modificato da Bismarck per farlo sembrare più grave di quello che in realtà era, e riuscì in questo modo a scatenare la guerra che già da troppo tempo veniva rimandata. La dichiarazione di guerra avvenne da parte francese il 19 luglio 1870, e anche questo fu un successo di Bismarck che passava anche da aggredito, pur essendo il primo ad aver voluto fortemente la guerra. Inoltre l’eccessiva insistenza francese sulla questione della successione spagnola l’aveva messa sotto una cattiva luce. La guerra quindi si svolse senza il coinvolgimento di altre potenze, anche l’Italia, unico probabile alleato francese, vistasi negare la contropartita dell’annessione di Roma in cambio dell’appoggio contro la Prussia rimase in disparte. La Francia rimase completamente isolata. Le sorti francesi erano quindi segnate e il 2 settembre 1971 l’esercito prussiano meglio organizzato ebbe la meglio su quello francese. Come scrisse Alan John Percival Taylor in L’Europa delle grandi potenze «Sedan segnò la fine di un’epoca nella storia d’Europa; il mito dellagrande nation, dominante l’Europa, cadde per sempre» (A.J.P. Taylor, L’Europa delle grandi potenze, Laterza, Bari, 1977, p. 299). 

Una volta giunta la notizia a Parigi l’impero cadde e si formò un governo di difesa nazionale. Le richieste di annessioni territoriali da parte prussiana impedirono la conclusione di un trattato di pace e non vennero apprezzate neanche in Inghilterra che ora vedeva in un eccessivo allargamento dello stato prussiano un pericolo per l’equilibrio europeo. Ma la Gran Bretagna non poté far altro che protestare verbalmente sia sulla questione francese, che su quella che si presentò quando la Russia denunciò gli accordi del 1856 sulla smilitarizzazione del mar Nero. La conferenza di Londra del gennaio 1871 «sanzionò l’approvazione dell’Europa all’iniziativa unilaterale russa, salvando con ciò almeno la finzione della legalità» . Altro importante evento seguito alla disfatta francese fu la presa di Roma, che una volta ritiratesi le truppe francesi, cadde il 20 settembre 1870. Il trattato di pace fu firmato a Francoforte il 10 maggio 1871 e prevedeva l’annessione alla Germania di tutta l’Alsazia e di parte della Lorena «l’annessione di questo territorio da parte della Germania può senz’altro essere considerato poco saggio, perché rese impossibile ristabilire la normalità dei rapporti franco-tedeschi; fu una latente sorgente di infezione introdotta nel corpo politico dell’Europa», e il pagamento di un indennità di cinque miliardi di franchi, una cifra altissima. Sebbene la convinzione tedesca per cui l’Alsazia sia un territorio tedesco non sia priva di fondamento, «il dialetto alsaziano è ancora oggi germanico» (Albrecht-Carrié 1978:157) tuttavia la popolazione nel 1871 era fondamentalmente contraria all’annessione al Reich. «Il disappunto rivelato dalla dichiarazione di Treitschke secondo cui gli alsaziani erano tedeschi e si doveva farglielo capire se necessario con la forza, è fino ad un certo punto comprensibile, anche se rivela fra l’altro un fondo di ingenuità e di inconsistenza» , rispetto alla pace raggiunta con l’Austria questa con la Francia costituiva sia una punizione che un umiliazione, e forse più che un umiliazione fu la cerimonia del 18 gennaio 1871, nella sala degli specchi a Versailles, della nascita dell’impero tedesco con la proclamazione di Guglielmo I imperatore. 

L’anno 1871 può ben essere preso come spartiacque in relazione al periodo che va dalla fine delle guerre napoleoniche allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo quest’anno infatti i rapporti tra potenze europee cambiarono drasticamente, con l’ascesa dell’impero tedesco e il declino della Francia iniziò una nuova era nelle relazioni internazionali. La Germania divenne ben presto la locomotiva d’Europa, la produzione industriale in pochi anni raggiunse e poi superò quella inglese, mentre la popolazione cresceva costantemente. 

Per quanto riguarda il commercio e le attività finanziarie Londra manteneva la guida indiscussa, ma in questo periodo capitali tedeschi iniziarono a invadere l’impero ottomano. «Londra era divenuta la capitale finanziaria del mondo, svolgendo una parte che era ad un tempo assai vantaggiosa per la Gran Bretagna e utile per tutti. Inoltre prevalevano condizioni di stabilità, di cui il gold standard costituiva un simbolo, un’espressione e una conseguenza piuttosto che una fonte di equilibrio». Gli anni dal 1871 al 1890 furono segnati dalla figura del Bismarck artefice del secondo Reich, e che gli aveva dato quel carattere militare della tradizione prussiana, che spesso servì per ben comprendere le politiche tedesche fino al 1945. Detto questo è innegabile che dopo la guerra franco-prussiana Bismarck si impegnò per il mantenimento della pace «Bismarck era ora sinceramente un uomo di pace». Sul piano diplomatico il cancelliere tedesco riuscì a riavvicinarsi all’Austria e a stringere un patto militare con la Russia, che porto al seppur fragile Dreikaiserbund, l’accordo tra i tre imperatori. Sul versante francese le difficoltà erano molte, ma anche in una situazione politica confusa riuscì con la sua ricchezza ben presto a pagare le indennità di guerra e ottenne l’evacuazione del proprio territorio già nel 1873, nonché una forte ripresa economica. 

I rapporti tra Austria e Russia furono caratterizzati dalle difficoltà incontrate per la gestione dei problemi dei paesi Balcanici, qui infatti alla tradizionale amicizia tra gli slavi balcanici visti dai russi come fratelli minori, si univano le difficoltà ormai croniche dell’«Uomo malato d’Europa», l’impero ottomano. Con lo scoppio della guerra tra turchi da una parte e Serbia e Montenegro dall’altra, Austria e Russia si accordarono segretamente a Reichstadt l’8 luglio del 1876, ma gli esiti della guerra con la sconfitta serba portò solo al fatto che i russi dovettero intervenire a difesa di Belgrado per evitare la sua caduta. Le voci di massacri compiuti dai turchi in Bulgaria influenzò molto l’opinione pubblica inglese che ora condannava gli orrori, facendo fare una sterzata alla politica inglese fino a quel momento indifferente, se non favorevole, alla causa turca. Gli eventi precipitarono nella primavera del 1877 con la dichiarazione di guerra ai turchi. La vittoria russa arrivo in gennaio quando l’esercito arrivò a minacciare l’invasione dell’intera Turchia europea, ma le forze russe erano stremate e il contemporaneo posizionamento della flotta inglese davanti l’Isola dei principi indusse lo zar a iniziare i colloqui di pace. La pace su firmata il 3 marzo 1878 a Santo Stefano. Con il trattato la Russia allargò la sua influenza in Europa e in tutti i Balcani, questo inoltre prevedeva la creazione di un grande stato bulgaro. Queste modificazioni dell’assetto dell’area scontentarono quasi tutte le potenze europee e per questo si decise di organizzare un congresso a Berlino per risolvere i contenziosi. 

Il congresso iniziò il 13 giugno e modificò non poco gli accordi di Santo Stefano: il grande stato bulgaro venne nettamente ridimensionato, una parte dello stato sarebbe stata affidata ad un principe cristiano mentre la Macedonia sarebbe rimasta sotto il controllo turco; Bosnia e Erzegovina vennero momentaneamente poste sotto il controllo austriaco, ma la sovranità rimaneva nella mani del sultano; Serbia e Montenegro ottennero compensazioni territoriali; la Russia ottenne Armenia e Bessarabia; l’Inghilterra per proteggere le rotte commerciali ottenne l’occupazione temporanea dell’isola di Cipro. In definitiva l’Austria e l’Inghilterra potevano essere soddisfatte dell’esito del congresso mentre la Russia che aveva combattuto una guerra dispendiosa e infine vittoriosa vide di molto diminuiti i propri vantaggi, e rimproverava a Bismarck, che pure era l’arbitro dichiarato a Berlino, di non aver fatto nulla per ottenere un risultato migliore. Queste insoddisfazioni portarono all’abbandono dell’Intesa tra i tre imperatori. Ruolo secondario svolsero a Berlino Francia e Italia. Forte fu la disillusione in Italia dopo il congresso. 

All’allontanamento dalla Russia segui un riavvicinamento tra Austria e Germania che vide il suo culmine con l’alleanza del 7 ottobre 1879, trattato difensivo in chiave anti-russa, che prevedeva la difesa attiva in caso di attacco russo a uno dei due stati, mentre in caso di attacco a uno dei due paesi da parte di un’altra potenza questi si impegnavano a restare neutrali. Si può quindi dire «che Bismarck avesse conseguito la posizione di arbitro fra i due rivali balcanici, dal momento che la causa probabile di conflitto fra essi stava in quella zona». Ma già nel 1881 i tre imperatori si ritrovarono e stipularono un accordo secondo il quale in caso di guerra con un’altra potenza di uno dei tre imperi, gli altri due si sarebbero impegnati a rimanere neutrali. In caso di guerra russo-turca era invece necessario un accordo, per quanto riguarda gli Stretti invece venivano respinte le tesi inglesi. Ma questo trattato non sostituì quello austro-tedesco, per cui era sempre possibile una guerra tra Russia e un’altro dei due imperi. Sempre nel 1881 l’Austria strinse un trattato di amicizia con la Serbia, dove però la Serbia era in posizione di dipendenza, inoltre sia Germania che Austria nell’ottobre del 1881 strinsero un accordo con la Romania. Con la Triplice Alleanza del maggio 1882, l’Italia si legava a Germania e Austria, che l’avrebbero protetta in caso di aggressione francese, l’irredentismo per il momento veniva messo da parte, mentre lo scontro interno tra Destra filo-conservatrice e in favore dell’alleanza e Sinistra filo francese non si sopì. Altra clausola era che l’alleanza non poteva essere intesa come diretta contro l’Inghilterra. 

Una nuova crisi tra Russia e Austria si aprì nel settembre del 1885 quando la Bulgaria annesse la Rumelia orientale. A questo punto la Serbia dichiarò guerra alla Bulgaria che fu salvata dalla disfatta solo dall’intervento austriaco. Il comportamento bulgaro non poteva non infastidire la Russia che quindi sarebbe entrata in frizione con l’Austria, in tutto ciò la possibilità di un alleanza franco- russa era sempre più probabile e intimoriva non poco il fronte austro-tedesco. Per questo Bismarck si impegnò per ottenere il rinnovo della Triplice alleanza, anche facendo concessioni all’Italia che era insoddisfatta delle precedenti clausole. Secondo il nuovo accordo l’Italia ottenne l’appoggio tedesco alla sua politica coloniale e, fatto più importante e per il quale il Bismarck dovette fare molta pressione sull’Austria per ottenerlo, la posizione italiana veniva equiparata a quella austriaca nel teatro balcanico. Sul piano dei rapporti con la Gran Bretagna, invitata da Bismarck, l’Italia firmo il 12 febbraio il primo Accordo mediterraneo per il mantenimento dello status quo. «Roma appare così il punto di incontro di due assi, quello della Triplice Alleanza e quello mediterraneo. Sebbene la Germania fosse direttamente implicata soltanto nella prima combinazione, Bismarck aveva avuto mano nella formazione dei due accordi e gli Accordi mediterranei sono stati qualche volta considerati il punto culminante della sua diplomazia». In questo quadro restavano escluse la Francia e la Russia, però mentre la prima in definitiva aveva buoni rapporti con l’Inghilterra e finanche con la Germania le tensioni non erano molto importanti, la Russia restava completamente isolata, fatto per il quale l’unico sbocco per un eventuale alleanza era la Francia. Per eliminare questo pericolo, che tra l’altro avrebbe potuto stringere la Germania tra due fronti, Bismarck si assicurò il trattato segreto di Contrassicurazione col la Russia secondo il quale i due paesi avrebbero adottato una politica di neutralità benevola nei casi di attacchi da parte di una terza potenza esclusi però casi di conflitto russo-austriaco causato dalla Russia o franco-tedesco causato dalla Germania, questo per far convivere il nuovo trattato con l’alleanza con la Duplice Corona. Inoltre la Germania si impegnava a non opporre resistenza nel caso in cui la Russia avrebbe preso con la forza il controllo degli Stretti. La tensione tra Russia e Austria salì di nuovo dopo che Ferdinando di Sassonia Coburgo venne scelto come sovrano bulgaro, poco dopo la firma del trattato di Controassicurazione. Per riequilibrare le posizioni allora Bismarck si servì dell’Italia e del lavoro del suo primo ministro Crispi, spingendo questi ad appoggiare l’Austria in caso di conflitto con la Russia e rinsaldando il legame anche con l’Inghilterra. In questo contesto di alleanze abbastanza caotico nel luglio del 1888 ascese al trono del secondo Reich l’imperatore Guglielmo II. Con Guglielmo II i rapporti russo-tedeschi si complicarono a causa delle dichiarazioni che Guglielmo II fece in occasione della visita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe in Germania, dove fece intendere che la Germania avrebbe reagito militarmente nel caso di un’aggressione verso l’Austria, e anche la visita al sultano turco non venne presa bene da parte dei russi. In sintesi «tutto ciò non rappresentava una sistematica e consapevole tendenza anti-russa, ma piuttosto una mancanza di riflessione sulle implicanze dei propri atti». Allo stesso tempo i rapporti tra Francia e Russia si facevano più stretti, sia a livello finanziario, con la concessione francese di un prestito di cinquecento milioni di franchi nell’ottobre del 1888, che a livello militare, con l’ordine russo di un gran numero di fucili. 

Il 20 marzo 1890 a seguito di un nuovo scontro con l’imperatore Guglielmo II sul rinnovo del trattato di Controassicurazione Bismarck si dimise dalla cancelleria. Da questo momento in poi la Germania nel contesto dei rapporti con le altre potenze inizierà ad assumere sempre più quello di «oggetto della reazione ostile delle altre potenze» (Albrecht-Carrié 1978:232). Successore di Bismarck alla cancelleria tedesca fu Leo von Caprivi, uomo che proveniva dal mondo militare estraneo al mondo della diplomazia, per queso assunse un ruolo centrale Friedrich August von Holstein, l’eminenza grigia della politica estera tedesca. I cambiamenti in politica estera non si fecero attendere, quindi i rapporti della Germania col la Russia si fecero sempre più problematici dopo il mancato rinnovo del trattato di Controassicurazione, mentre questi ultimi siglavano un accordo con la Francia. Per tutta risposta la Germania riuscì a ottenere il trattato Helgoland- Zanzibar con l’Inghilterra, e il rinnovo della Triplice Alleanza. 

Nel frattempo i rapporti russo-francesi si faceva sempre più intensi, anche se ancora non c’era nessun accordo scritto, ma importante fu l’invito dello zar alla flotta francese nell’estate del 1891. L’abbozzo di una convenzione militare venne siglato nell’estete del 1892. «L’accordo era indiscutibilmente difensivo e costituiva una risposta alla Triplice Alleanza. Per entrambe le potenze significava sfuggire all’isolamento, sotto il quale aspetto l’alleanza aveva maggiore significato per la Francia che per la Russia». L’ alleanza effettiva venne firmata il 4 gennaio 1894. 

Nell’accordo si specificava che in caso di guerra contro la Germania «le forze disponibili da impiegarsi contro la Germania dovranno essere per la Francia 1.300.000 uomini, per la Russia da 700.000 a 800.000 uomini. Queste forze inizieranno un’azione completa con tutta la rapidità possibile, così che la Germania dovrà combattere nello stesso tempo ad oriente e ad occidente» (Albrecht-Carrié 1978:239). 

Alla periferia dell’Europa intanto nel gennaio del 1897 scoppiò la guerra tra Turchia e Regno di Grecia, causata da una nuova rivolta nell’isola di Creta, malgrado lo squilibrio delle forze in campo, con l’intervento delle grandi potenze si evitò una punizione pesante per la Grecia sconfitta e inoltre si ottenne in riconoscimento dell’autonomia all’isola di Creta. Nel maggio del 1897 con l’accordo austro-russo si ottenne una sorta di congelamento della situazione balcanica, accordo ottenuto anche con l’invito alla moderazione rivolto dai francesi ai russi e dai tedeschi agli austriaci. Evento importate in Africa fu la sconfitta dell’Italia in Abissinia, che ridimensionò il peso della potenza italiana, e fece vacillare la Triplice Alleanza, quando l’Italia fece di capire di poter passare nel campo opposto, arrivando ad un accordo con la Francia. L’Italia infatti si sentiva tradita per il mancato sostegno degli alleati in Africa orientale e quindi chiedeva misure più favorevoli da inserire nel trattato di alleanza, ma alla fine l’accordo resse e le condizioni restarono immutate. Non resse l’impatto della sconfitta in Abissinia invece il Crispi che fu costretto, anche dai disordini scoppiati sopratutto in Lombardia, alle dimissioni. Queste dimissioni furono cruciali nei rapporti italiani con gli alleati, infatti possiamo dire che dopo la caduta di Crispi l’orientamento della politica italiana si avvicinerà sempre di più alle posizioni francesi. Oltre alle alleanze continentali che vedevano la Francia isolata, ad aggravare la situazione sopraggiunse la crisi di Fascioda con l’Inghilterra e l’umiliazione della sconfitta diplomatica. 

Con la nomina di Bulow come ministro degli esteri tedesco la politica della Germania andò sempre più a caratterizzarsi verso la Weltpolitik, l’aspirazione al ruolo di potenza globale, di arbiter mundi, condivisa da Bulow e da Guglielmo II (nonchè dall’ammiraglio Alfred von Tirpitz) poteva ora dispiegarsi. (guerra boera e rivolta boxer) 

Dopo le dimissioni di Crispi in Italia il governo fu affidato a Rudinì che con la sua politica filofrancese riavvicinò i due paesi divisi dalle Alpi, togliendo la Francia da un isolamento durato troppo a lungo «erano passati i giorni in cui da Berlino si controllava l’Europa e la Francia si trovava in una situazione di isolamento completo», mentre la Francia nell’agosto del 1899 rafforzava il proprio legame con la Russia ampliando l’ambito dell’alleanza. I rapporti tra Russia e Germania si fecero più problematici dopo che la Germania iniziò a investire e penetrare all’interno dell’impero ottomano, con investimenti ingenti di cui la ferrovia di Bagdad ne era l’esempio più chiaro. In Serbia invece sul volgere del secolo si verifico un cambio di dinastia dopo l’assassinio di re Alessandro che portò la casa Karagjorgjevic al potere con re Pietro, e a un forte avvicinamento alle posizioni russe. Sul versante inglese con l’ascesa al trono di Edoardo VII, succeduto all’inizio del 1901 alla defunta regina Vittoria che per più di sessant’anni aveva guidato il Regno Unito, si ebbe un atteggiamento più favorevole ad una possibile alleanza con la Francia, poi coronata con gli accordi dell’Entente cordiale dell’aprile del 1904, che risolveva i rapporti conflittuali tra le due parti in Africa settentrionale con il riconoscimento inglese degli interessi francesi in Marocco. 

Sul versante orientale il 1905 vide l’ascesa del Giappone al rango di grande potenza dopo la vittoriosa guerra contro la Russia. Il conflitto russo tedesco però influenzò anche le dinamiche delle alleanze europee perché vedeva l’Inghilterra al fianco dei giapponesi e la Francia alleata dei russi, fatto che poteva vanificare tutti gli sforzi, soprattutto francesi, fatti per arrivare all’Entente cordiale. Di tutto ciò ne avrebbe potuto approfittare la Germania, che però perse quest’occasione, entrando in conflitto con la Francia riguardo la situazione del Marocco, dove la politica estera tedesca di sostegno al sultano arrivò fino alla visita ufficiale dell’imperatore Guglielmo II a Tangeri, con la quale la Germania riconosceva come unico interlocutore per quanto riguardava la politica marocchina il sultano, negando quindi di riconoscere qualsiasi tipo di influenza francese nell’area. La questione marocchina era diventata così spinosa da poter produrre una nuova guerra europea, la tensione salì notevolmente tanto che il ministro degli esteri francese Théophile Delcassé, che perseguiva una politica rigidamente avversa a ogni tipo di concessione ai tedeschi, si dimise e gli successe Maurice Rouvier molto più propenso ad arrivare ad un accordo con i tedeschi. Ora i tedeschi potevano arrivare facilmente ad un accordo conveniente con la Francia, ma l’arroganza e quella mancanza di arte della diplomazia che spesso ha influenzato negativamente uomini politici tedeschi, si mostro in chiara evidenza nella posizione «del pugno di ferro e della sciabola sguainata» , di Bernhard von Bülow. Questa posizione così forte della Germania nei confronti della Francia che ancora una volta veniva umiliata dai tedeschi causò una forte reazione in Inghilterra che con il suo ministro degli Esteri Sir Edward Grey, organizzò alla fine di gennaio del 1906 un incontro ufficiale tra gli Stati Maggiori di Francia e Regno Unito, prodromo della futura alleanza franco-inglese. Fu così che all’inizio del secolo la situazione di isolamento vissuta dalla Francia negli anni passati fu neutralizzata dall’azione tedesca che riuscì ad isolarsi dal resto delle potenze europee per l’arroganza dimostrata nella prima crisi marocchina, e responsabili di ale isolamento furono soprattutto Bulow e il Kaiser stesso che dimostrarono scarse doti diplomatiche in una situazione che richiedeva «una abilità superiore» . Questo isolamento divenne ancora più accentuato dopo l’accordo anglo-russo dell’agosto 1907 con il quale le due parti venivano ad accordo riguardo le zone di influenza in Persia, con questo accordo nasceva la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia. È in questa fase che in Germania si «cominciò a concepire il mito dell’ Einkreisung», dell’accerchiamento. Anche se l’accordo era una combinazione di accordi bilaterali tra le tre potenze e quindi meno rigido rispetto alla Triplice Alleanza, nondimeno si rivelerà efficace in chiave anti-tedesca, anche se inizialmente non venne concepito esclusivamente per contrastare la Germania e prova ne è il fatto che l’alleanza anglo-inglese riguardava zone dove non c’era alcun interesse tedesco da limitare o contrastare. Dopo un periodo nel quale la situazione balcanica aveva subito una sorta di congelamento in grado di sopire lo scontro tra Austria e Russia, nell’ottobre del 1908 l’Austria violando il trattato di Berlino del 1878, dichiarava unilateralmente l’annessione della Bosnia-Erzegovina a cui segui un accordo austro-turco per il formale passaggio di sovranità (in Turchia nel frattempo i giovani turchi avevano preso il potere…). Il successo delle potenze centrali fece intravedere alla Germania la rotture dell’accerchiamento da parte delle potenze dell’Intesa, anche perché durante la crisi né la Francia né la Gran Bretagna si impegnarono più di tanto a sostenere la posizione dell’alleato russo. L’azione austriaca però non riuscì a placare le speranze degli slavi meridionale della Bosnia verso l’unione con le province serbe, che anzi videro ormai nelle azioni violente l’unico modo per ricongiungersi ai fratelli serbi. Nonostante le dichiarazioni conciliatorie del governo serbo, che riconobbe l’annessione della Bosnisa-Erzegovina nel marzo del 1909 da parte austriaca, era chiaro che la Serbia si sentiva umiliata dall’azione unilaterale austriaca. Sul fronte della Triplice l’annessione della Bosnia causò il risentimento italiano che da questo ampliamento territoriale dell’alleato austriaco non ottenne nessun vantaggio, da qui l’accordo di Rocconigi tra Italia e Russia per impedire una futura azione unilaterale austriaca nei Balcani, accordo che mirava al mantenimento dello status quo

Nel giugno del 1909 a seguito di contrasti sopraggiunti col Kaiser Bulow presentò le sue dimissioni, così Albertini ricorda la sua figura, e gli effetti del suo cancellierato nello scenario europeo: «fu durante il suo cancellierato e per l’attività da lui svolta che la Germania pose le fondamenta della situazione da cui, nel 1914, nacque la prima guerra mondiale. 

Successore di Bulow fu il meno arrogante Bethamann-Hollweg. Dopo la crisi del 1905 fu di nuovo sugli interessi in Marocco che nel maggio 1911 scoppiò una nuova crisi a seguito dell’occupazione francese di Fez, a cui i tedeschi risposero con il posizionamento della nave da guerra Panther a largo del Marocco. I colloqui tra Kinderlen, ministro degli esteri tedesco, e Caillux, primo ministro francese, che vedeva di buon occhio la ripresa di relazioni amichevoli con la Germania, potevano risolversi in maniera veloce, ma ancora una volta la diplomazia tedesca si mostrò incapace di arrivare ad un accordo. Le richieste tedesche erano infatti esagerate, il compenso per la risoluzione della crisi marocchina era infatti stato individuato nell’intero Congo francese che sarebbe dovuto passare sotto il controllo della Germania, richiesta assurda non solo agli occhi della Francia. Con il discorso del 21 luglio del primo ministro del Regno Unito Lloyd George la guerra si profilò all’orizzonte. La situazione si risolse nel novembre del 1911 con un accordo equilibrato franco-tedesco sullo scambio di territori coloniali. Anche a seguito del malcontento dell’opinione pubblica francese sulle condizioni dell’accordo con i tedeschi Caillux fu rovesciato e Poincaré assunse la carica di primo ministro della Repubblica francese, nato nella regione della Lorena Poincaré sintetizzava nella sua persona il sentimento di réveil national della Francia. 

Dopo la risoluzione della seconda crisi marocchina fu l’Italia nel settembre del 1911 ad iniziare una nuova avventura in Africa settentrionale con l’invasione della Libia. L’annessione fu proclamata il 5 novembre del 1911, mentre nell’aprile-maggio del 1912 furono occupate le isole del Dodecaneso nel Mar Egeo. L’operazione italiana scontentò un po tutte le potenze europee sia alleate che non, e anzi fu proprio l’alleata Austria a provare più fastidio riguardo l’impresa coloniale italiana. Durante questo periodo i rapporti tra Germania e Inghilterra per risolvere i problemi causati dalla rivalità navale, sorta con l’intenzione tedesca di allargare la propria flotta e diventare un diretto concorrente della potenza marittima britannica, indiscussa dominatrice dei mari, videro il culmine con la visita in Germania di Lord Haldane, ministro della guerra britannico. Ma anche questo tentativo di intesa anglo-tedesca, come i precedenti, fallì, unica a salutare con piacere questo esito fu ovviamente la Francia. 

Sul fronte balcanico a opera della diplomazia russa nel marzo del 1911 si arrivò ad un accordo serbo-bulgaro e nel maggio dello stesso anno ad un accordo greco-bulgaro che formò la Lega balcanica, nata in funzione anti-ottomana. Tra il maggio e l’ottobre del 1911 la diplomazia europea cerco di risolvere il problema nei Balcani senza ricorrere alle armi, ma la lentezza delle discussioni rese inevitabile la dichiarazione di guerra del Montenegro alla Turchia a cui poco dopo si unì anche quella della Lega balcanica. La disfatta della Turchia fu subito evidente e con l’armistizio del 3 dicembre la Turchia in pratica veniva estromessa dal territorio europeo. I turchi rifiutarono di accettare questo esito e ripresero le ostilità ma il 30 maggio 1913 dovettero cedere all’evidenza dei fatti firmando la pace di Londra con la quale cedettero tutto il territorio turco in Europa. A seguito della pressione austriaca sulla Serbia che le impediva di accedere al mare Adriatico i serbi volsero le proprie mire sulla Macedonia fatto che portò la Bulgaria a dichiarare guerra alla Serbia il 29 giugno 1913, e anche alla Grecia con la quale era aperto il contenzioso su Salonicco. Di questo scontro ne approfittarono i turchi che ripresero il controllo di Adrianopoli. La Bulgaria uscì dal conflitto ridimensionata nelle sue aspirazioni pagando l’errore di calcolo che l’aveva portata a dichiarare guerra agli ex alleati. La pace fu firmata a Bucarest il 13 agosto 1913, e causò il risentimento austriaco che non vide soddisfatte le richieste bulgare, da essa sostenute, sul controllo di Kavala, che avrebbe costituito uno sbocco sul Mar Egeo. Un successo austriaco fu invece la definizione dei confini del nuovo stato albanese (stato nato con il forte sostegno dell’Austria e dell’Italia) con la Serbia, fatto che non fece altro che esacerbare ancora di più i rapporti son gli slavi. 

La sconfitta turca nelle guerre balcaniche comportò nuove tensioni tra Russia e Germania, nel momento in cui i turchi chiesero, e i tedeschi accettarono l’aiuto militare alla Germania per la riorganizzazione del proprio esercito. A questo scopo fu inviato in Turchia il generale Liman von Sanders, incaricato di modernizzare l’esercito turco. Questa missione fu accolta in Russia negativamente, dal momento che i russi vedevano in essa un azione ostile nei propri confronti. La malafede russa in realtà era forse un po esagerata dal momento che i turchi chiesero aiuto agli inglesi per rimodernare la propria marina, quindi le due missioni erano indirizzate esclusivamente a ottenere le prestazioni degli esperti più importanti nei campi di difesa e quindi gli inglesi per la marina e i tedeschi per l’esercito. Ma non erano solo le tensioni tra russi e tedeschi e quindi i rispettivi governi a intravedere già il conflitto venturo. Tutti gli Stati Maggiori delle potenze europee infatti in questo periodo avevano già preparato i propri piani di guerra. Ma «è bene anche ricordare che pochissimi tra i governanti responsabili desideravano effettivamente la guerra: non lo stesso Kaiser, malgrado tutti gli eccitati e imprudenti commenti con cui egli cosparse i documenti ufficiali tedeschi. Nel 1914 i popoli europei non avevano conosciuto la guerra in patria da due generazioni; un periodo di pace così lungo produceva l’impressione che la sua continuazione fosse cosa normale, così come il cambio aureo, la stabilità della moneta, la libertà di viaggiare e la libertà di parola erano condizioni che l’Europa accettava come parte di un modo di vivere stabile definitivo. L’Europa era forte e orgogliosa dei suoi risultati e della sua potenza; ai suoi stessi occhi l’Europa era una civiltà, i cui benefici aveva sparsi e spargeva nel mondo intero. Le grandi potenze civili dell’Europa non sarebbero più ricorse alla rozza prova della forza per definire le loro contese, e lo stesso ripetersi di crisi, alla fine sempre pacificamente risolte, poteva valere come prova della giustezza di tale opinione. […] C’era, o si pensava ci fosse in Europa, una pace, una stabilità e un progresso perenni» (Albrecht-Carrié R., 1978:331-332). 

Questa speranza perse ogni giustificazione di essere con l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este il 28 giugno 1914, casus belli della Prima guerra mondiale che scoppierà un mese dopo, il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia. 

Dall’idea universalistica di pace degli illuministi francesi alla Kriegsideologie dei tedeschi

Vediamo ora di affrontare alcuni autori centrali nella produzione filosofica europea per quanto riguarda invece la costruzione della pace. 

Nel corso del tempo nei filosofi e negli scrittori politici si afferma l’idea che «la guerra emerge da cause materiali connesse alle strutture storicamente determinate delle società»* e non alla natura dell’uomo. Questo segna la maturazione della ricerca filosofico-politica sul concetto di guerra che cerca di superare i limiti dell’utopia. 

Il pensiero Thomas Hobbes, padre del pensiero politico moderno, si basa sull’esperienze della guerra civile di religione tra Cinquecento e Seicento in Europa e Inghilterra, dove il sovrano deve garantire la pace interna alla società. Dal pensiero hobbesiano emerge la naturalità della guerra e l’artificiosità della pace (anche Kant dirà che la pace si deve “costruire”). L’insegnamento essenziale di Hobbes forse contraddice queste premesse perché «risiede nel riconoscimento della natura sociale ed economica delle cause della conflittualità tra gli uomini che supera l’idea della responsabilità della guerra legata all’intima natura dell’uomo» (qui Burgio dice che l’idea di Hobbes è velata di naturalismo ma che in fondo vede già la guerra come lotta causata dalla nuova concorrenzialità sul mercato del lavoro e dei capitali). Precedente immediato di Kant è l’opera Project pour rendre la paix perpétuelle en Europe dell’ abbe di Saint-Pierre ma le analisi sulle cause di guerra sono molto differenti rispetto all’opera kantiana. Già Rousseau infatti vede dei limiti nell’opera dell’abbe, che non riesce a cogliere nell’insieme tutte le cause di guerra e quindi a trovare i mezzi superarli. Non vede negli Stati assoluti l’origine delle guerre, riduce eventi a volontà sovrani, e sbaglia quando affida il compito di risolvere il problema a coloro che ne sono le cause, i sovrani assoluti, Kant invece vede nell’abbattimento dell’ancien Régime il presupposto della pace. 

Con Erasmo invece la guerra non sembra conoscere altro antidoto che l’istituzione etico-religiosa del principe cristiano, tesi priva di effetto reale. Realismo che è invece la forza dell’argomentazione di Machiavelli per il quale la guerra è inevitabile. 

Con lo scisma religioso tramonta l’idea di iustizia come fundamentum pacis e «una guerra radicale appare l’unica premessa di una possibile pax iusta et vera» . Con la fine delle guerre di religione si afferma la pax civilis con la quale si afferma l’autorità dello Stato da una parte e la tolleranza religiosa dall’altra. Si passa dalla pax christianitatis alla pax humanitatisstatus civilis status pacis vanno a coincidere mentre pace e giustizia non coincidono più “aucthoritas, non veritas, facit legem” afferma infatti Hobbes. Il raggiungimento della pax effectiva sostituisce quello della pax vera. Ma come la potenza del sovrano garantisce la pace interna, così non è sul piano internazionale dove è la violenza che garantisce la potenza, guerra e potere assoluto sono quindi intimamente legati. Le guerre internazionali mantengono la pace interna, già Bodid affermava che la guerra era la «medicina purgante» per liberare la repubblica dai «corrotti Humori», tramite l’invio, al fronte, o sarebbe il caso di dire alla morte, di «ladroni, homicidiali, assassani, vagabondi e sediziosi», e altresì vedeva nel perpetuarsi delle guerre internazionali un argine «all’insurgenza delle innatuarali guerre civili». 

Pax civilis e guerre internazionali: si riassume in questa coppia l’effetto dell’affermarsi della monarchia assoluta come soggetto esclusivo della sovranità. In definitiva si assiste al paradosso che con l’affermarsi della potenza dello stato viene a ricercarsi quell’ideale di pace perpetua caro all’illuminismo, pace perpetua come «simbolo dell’onnipotenza dello Stato» , e infatti sia nel progetto di Sully che in quello di Saint-Pierre centrale è il mantenimento dello status quo, del sistema sociale e politico della ancien Regime, fondato inoltre sull’eurocentrismo inteso come costante appello alla lotta contro i turchi e per l’espansione del dominio cristiano. Questi temi saranno ripresi da Rousseau per una forte critica di Saint-Pierre, che confonde le cause della guerra con le soluzioni, non intendendo che «la guerra e le conquiste da un lato, e il progresso del dispotismo dall’altro, si aiutano a vicenda». Ancora più chiaro è l’attacco di Voltaire quando dice che per «porre fine al flagello della guerra bisognerebbe punire quei barbari sedentari che dal fondo del loro gabinetto ordinano, nell’ora della siesta, il massacro di un milione di uomini, e poi di ciò fanno rendere solennemente grazie a Dio»e come Thomas Paine che afferma: «finche sussisteranno simili governi, la pace non sarà davvero al sicuro nemmeno per un giorno». Su un altro tema centrale però gli intellettuali illuministi non sono sempre d’accordo per cui si hanno posizioni di condanna del mercantilismo come in Mably, Raynal, Coyer, Dutot e Goudard per il quale non sarebbero più gli eserciti ma i mercanti a fare le moderne guerre, e posizioni favorevoli come in Bentham, Constant e Say dove per quest’ultimo l’economia politica è «la scienza della pace per eccellenza». 

Al di là di queste differenti posizioni in merito alla politica mercantilistica in tutti gli intellettuali dell’epoca troviamo un’unanime condanna del carattere bellicoso dello stato assoluto e «della perversa connessione tra politica estera aggressiva e dispotismo delle monarchie». Riassuntivo della posizione generale degli intellettuali illuministi è forse presente nel pensiero di Condorcet quando afferma che «fonte dei conflitti tra gli uomini, l’ “ambizione” è opera non della natura ma dell’arte sociale e della sua imperfezione». Nella visione unitaria di guerra interna, contro i propri sudditi, ed esterna contro gli altri stati , nasce anche l’idea universalistica di pace, che deve legare tutti gli uomini. L’opposizione più chiara a Saint-Pierre, che supera le sue tesi radicalmente, è visibile in Mably e nella sua difesa, o meglio necessità, delle guerre civili; scrive infatti nel Des droits et des devoirs du citoyen: «la guerra civile è un male. In quanto è contraria alla sicurezza e alla felicità che gli uomini si sono proposti nel dar vita alla società e in quanto procura la morte di molti cittadini; come è un male per me l’amputazione di un braccio o di una gamba in quanto contraria all’organizzazione del mio corpo e causa di dolore lancinante. Ma quando ho la cancrena alla gamba o al braccio questa amputazione è un bene. Così è un bene la guerra civile se senza il soccorso di tale operazione la società sarebbe esposta al pericolo di morire nella cancrena, se, fuor di metafora, correrebbe il rischio di soccombere al dispotismo» 

Viene qui rovesciata completamente la tesi anche di Hobbes e Bodin che vedevano nella guerra civile il male assoluto, e che qui è invece vista come guerra alla guerra. La mancanza di giustizia della pax civilis è il problema da superare «la veritas si afferma ora insostituibile sostegno di un authoritas che si voglia fonte di lex» . In quest’ottica va intesa la difesa delle guerre difensive della Francia rivoluzionaria che per Herder sono «il primo esempio di guerra giusta ed equa» così come il movimento rivoluzionario «è necessario alla nostra specie quanto le onde del fiume, affinché questo non diventi una morta palude». La rivoluzione, ultimo episodio di violenza, deve quindi abbattere l’ ancien Regime per affermare la pace perpetua in terra. La fraternità universale. E nel rifiuto della guerra di conquista presente nella costituzione francese del 1791, e nel rifiuto di ingerirsi negli affari di governo delle altre nazioni presente nella costituzione del 1793, questo tema viene ben sottolineato. Culmine del pensiero illuminista è stata la teorizzazione di Immanuel Kant sulla pace e sul cosmopolitismo. Fondamentale è allora ricordare i contenuto dell’opera Per la pace perpetua di Kant del 1795, progetto giuridico per il mantenimento della pace e l’abolizione della guerra. L’opera è quindi strutturata in sei articoli preliminari e tre definitivi. 

I sei articoli preliminari prevedono: 

1) «Un trattato di pace non può valere come tale se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra»infatti in questo caso si potrebbe parlare solo di tregua e non di pace. 

2) «Nessuno Stato indipendente (non importa se piccolo o grande) può venire acquisito da un altro Stato tramite eredità, scambio, vendita o dono» perché è questo non è una proprietà ma un insieme di uomini, una «società di uomini». 

3) «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono con il tempo scomparire del tutto». 

4) «Non devono essere fatti debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello Stato».

5) «Nessuno Stato può intromettersi con la violenza nella costituzione e nel governo di un altro Stato».

6) «Nessuno Stato in guerra con un altro si può permettere ostilità tali da rendere necessariamente impossibile la reciproca fiducia in una pace futura: per esempio, l’impiego di assassini (percussores), di avvelenatori (venefici), la violazione di una capitolazione, l’organizzazione del tradimento (perduellio) nello Stato nemico ecc».

I tre articoli definitivi sono: 

1) «In ogni Stato la costituzione civile deve essere repubblicana». 

2) «Il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati». 

3) «Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale». 

Vediamo quindi che questi ultimi tre articoli hanno rispettivamente a che fare con lo ius civitatis con lo ius gentium e con lo ius cosmopoliticum.
 Questa sequenza che sale ogni volta di livello sembra suggerire che la logica del progetto tenti di globalizzare la giustizia locale, è infatti «l’estensione dell’argomento contrattualistico dal versante interno all’arena internazionale» (Kant I., Per la pace perpetuaPrefazione di Salvatore Veca. Traduzione di Roberto Bordiga con un saggio di Alberto Burgio, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2009)
 a razionalità dei singoli individui estesa a quella tra Stati. «Kant oppone, con una mossa concettualmente controvertibile e controversa, alla classica e ricorrente interpretazione di Hobbes dell’arena internazionale come un genuino stato di natura la sua idea di un sistema o regime interstatuale basato su una sorta di contratto sociale esteso fra Stati che, possono agire gli uni sugli altri e, quindi, devono entrare a far parte di una qualche “costituzione” che regoli pacificamente le loro relazioni e transazioni nella durata». (Kant I., 2009:15). Gli Stati devono federarsi per creare le condizioni necessarie al superamento dello stato di guerra e dare vita a quel diritto cosmopolitico per il quale ogni cittadino del mondo ha diritto a non essere trattato ostilmente all’interno del territorio di un qualsiasi Stato che non sia il proprio.
 La ricezione del testo kantiano in Francia fu entusiasta, al punto da portare Sieyés a pensare di affidare allo stesso Kant la redazione della nuova costituzione . 

Così non fu in Germania dove non mancarono le critiche, il giurista Christian Gottfried Körner e anche lo studioso Alexander von Humboldt accusarono Kant di propagandismo e violento democraticismo, altri attacchi furono fatti da Alexander Lamotte, Mannheim Valentin Embser e dal generale Johann Jakob Otto August Ruhle von Lilienstern.
 

È qui importante notare però che Kant non «manca mai di subordinare la guerra al conseguimento della pace», e infatti scriverà che «la guerra “tempera il dispotismo” e costringe al “rispetto dell’umanità”: allo scopo di difendere la libertà dalla tirannide, non essendo “un male incurabile quanto la tomba del dominio unico”, essa può venire perfino preferita a una pace che rischi di dar luogo al “più orribile dispotismo”»(Burgio A., 2009:130).

Nel corso del XIX secolo queste idee furono criticate da più parti se non addirittura capovolte come nell’opera del generale von Lilienstern Apologia della guerra che 

«critica l’idea della guerra come spazio non giuridico, ritenendola, viceversa, l’unica e vera fonte di diritto. Non è vero che la guerra è contraria al diritto e alla ragione, anzi essa ne è esattamente coerente e, forzando l’argomentazione kantiana sull’ammissibilità della guerra nello stato di natura egli scrive: “se la guerra è permessa come mezzo di fortuna, ne viene che per la ragione si tratta, in ultima istanza, di realizzare l’idea del diritto, preferendo tale violento mezzo alla rinuncia a tal fine”. Nella guerra “torna e cresce di nuovo la legge. Quanto più è energico il conflitto, in modo tanto più puro, potente e comprensibile è prodotta per suo mezzo l’idea del diritto”» (Lazzarich D. Guerra e pensiero politico. Percorsi novecenteschi, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 2009, p.94. riprende R. von Lilienstern, Apologia della guerra. Contro Kant.)

Durante gli anni della restaurazione si affermerà quindi l’idea della naturalità della guerra, vedi Jacobi e Maistre, Humboldt e Schiller per il quale la guerra è il bagno morale che deve «rigenerare un’umanità minacciatadall’intisichimento»(Burgio A., 2009:133) , mentre Friedrich von Gentz, prima sostenitore e poi feroce oppositore della rivoluzione francese nella quale vede scaturire una «smania di rapina», la guerra è vista come lo scontro ineliminabile tra creature coscienti. È chiaro che non fu facile per gli intellettuali tedeschi mantenere la linea progressista , soprattutto dopo l’annessione della riva sinistra del Reno da parte francese. A questo proposito i lavori di Jhoann Gottlieb Fitchte, Über Machiavelli als Schriftsteller I tratti fondamentali dell’età presente, segnarono una «prima presa di coscienza della questione nazionale e dello smascheramento dell’ipocrisia della propaganda “pacifista” mirante all’instaurazione della pax napoleonica su scala europea». Queste tesi dell’ultimo Fichte saranno fatti acquisiti per il primo Hegel al quale «la precoce coscienza della questione nazionale tedesca e il riconoscimento delle cause oggettive dei conflitti gli consentono di cogliere senza incertezze l’uso ideologico dell’ideale della pace perpetua da parte dello schieramento filonapoleonico e, dopo Vienna, dei sostenitori della Santa Alleanza» (Burgio A. 2009:135). È da qui che, come vedremo, nasce la sua critica al sistema kantiano, e «non certo dal disprezzo per la pace» . 

Quindi con George Wilhelm Friedrich Hegel il mutamento sull’approccio alla guerra si fa cesura netta rispetto a Kant e al pensiero illuminista fatto che poi influenzerà in maniera fondamentale il pensiero successivo. 

Seguendo il ragionamento di Carlo Galli allora «Hegel fa della guerra un elemento costitutivo e imprescindibile della politica, a partire tanto dall’esperienza della rivoluzione francese e delle campagne napoleoniche che lo hanno portato a riconoscere nella “totalità etica del popolo in armi” il nuovo soggetto attivo nella vita dello Stato in grado di porre in discussione le sovranità dinastiche, quanto nell’analisi “delle strutture politiche dello Stato moderno”, nella forma costituzionale che egli riconosce adeguata ai tempi nuovi» (C. Galli (a cura di), Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. XIV). Hegel inoltre attacca l’idea di Kant sul congresso permanente degli Stati che dovrebbe garantire la pace. Ciò che per Kant dovrebbe essere l’universale in cui dovrebbe confluire ogni particolare, si trasforma in Hegel nel particolare contro cui si infrange l’universale. Di fatto è su questo particolare che trova appoggio l’idea di Kriegsideologie (ideologia della guerra): la storicità tedesca deve contrapporsi all’universalità dei paesi dell’intesa. 

Così Hegel si esprime in Lineamenti di filosofia del diritto

«non c’è alcun pretore, al massimo arbitri o mediatori tra Stati, e anche questi soltanto in modo accidentale, cioè secondo volontà particolari. La concezione kantiana di una pace perpetua grazie a una fondazione di Stati, la quale appianasse ogni controversia […] e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia degli Stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità» (G. F. W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza Roma-Bari, 1996, p.333).

Per Hegel l’unico mezzo per risolvere le controversie tra stati rimane la guerra. E rispetto al terzo articolo preliminare della Pace perpetua pensa l’esatto contrario di Kant. Per Hegel la guerra è rinnovamento, fondando tutta la sua filosofia sulla contrapposizione dialettica che porta poi alla nuova sintesi è naturale per lui vedere nel conflitto qualcosa di positivo e questa è infatti la sua linea anche rispetto alla rivoluzione francese nella quale vede, pur criticando gli eccessi del Terrore giacobino, un movimento di idee che spazza via un regime ormai praticamente morto, che ha terminato la sua attività all’interno della storia, per sostituirlo con un nuovo regime. E infatti per Hegel la «guerra è qualcosa di ciò che è in atto non merita di conservarsi e deve essere superato, così come è accaduto nel passato, quando la storia ha mostrato che grandi e civili imperi sono stati rovesciati dai cosiddetti “eroi cosmo-storici” – uno per tutti, Napoleone – i quali, pur perseguendo i propri fini, hanno contribuito a realizzare il piano generale dello Spirito; insomma, i tiranni o i governanti incapaci sappiano che c’è sempre una possibilità che il loro potere non sorretto da razionalità venga rovesciato. In tal senso, la guerra, interna o esterna, è il supremo cimento che mette alla prova la vitalità di uno Stato e la “realtà effettuale” della vittoria stabilisce anche chi esprime il livello maggiore di razionalità in una data epoca: la Storia del Mondo è, pertanto, anche Tribunale del Mondo» (G.F.W. Hegel, 1996:341).
 In definitiva con Hegel la guerra diventa il motore del mondo e sulla base della concreta esperienza storica al centro della sua riflessione pone il problema dell’indipendenza e del diritto all’autodeterminazione. 

«Dall’affermazione di tale diritto discende la diffidenza verso la falsa universalità di organismi internazionali costituitisi in “antitesi” a un “nemico”, il rifiuto della pretesa avanzata da “Stati più potenti” di mantenere l’”ordine in Stati più piccoli”. E discende al tempo stesso la consapevolezza di quanto tortuoso e accidentato sia il cammino verso il reale superamento della conflittualità internazionale, possibile appunto solo ove si sia data generale soluzione alla questione nazionale e ai problemi politici e sociali che la intrecciano» (Burgio A. 2009:136).


 

Dopo questa breve premessa possiamo affrontare due autori tedeschi che nei primi anni del novecento ispirarono le idee che poi si radicalizzarono nella Kriegsideologie. Innanzi tutto questo termine che possiamo tradurre con ideologia della guerra racchiude tutte le idee politiche che si ritrovano nel rifiuto della democrazia liberale e del socialismo marxista intrisi di materialismo, razionalismo e internazionalismo. Idee che pervaderanno la politica tedesca dai primi del Novecento fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Sotto l’ottica di questa ideologia «la guerra non è più solo lo strumento con il quale realizzare le istanze dello Stato tedesco, ma è anche il mezzo con il quale arginare il liberalismo e la democrazia, in nome di uno scontro di civiltà tra Germania e Occidente, tra Kultur e Zivilization, tra gli eroi tedeschi e i mercanti della terra di Hobbes, tra le idee del 1914 e le idee del 1789» (Lazzarich D., 2009). Queste tre opposizioni tra Germania e Occidente spiegano bene l’atteggiamento tedesco nei confronti della guerra e in generale sul ruolo che essi si attribuiscono nel quadro non solo politico ma anche culturale europeo. 

Lo scontro tra Kultur (civiltà) e Zivilization (civilizzazione) si può spiegare a partire dalla definizione che Oswald Spengler da a questi termini. Spengler parte dall’idea che le civiltà siano degli organismi che come gli esseri umani nascono, crescono e poi muoiono. La Zivilitation rappresenta il culmine della civiltà e l’inizio della sua fine. Secondo questa teoria l’incivilimento della vita individuale e sociale costituisce un limite alla capacità creativa (Vattimo G. Tecnica ed esistenza, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 2). 

Sotto questo punto di vista allora lo scontro tra Kultur Zivilization diventa vero e proprio scontro di civiltà. 

L’altra opposizione tra eroi e mercanti è tutta all’interno delle diverse concezioni tra tedeschi e inglesi dove questi ultimi rappresentano il mercante per eccellenza; l’Inghilterra dominatrice dei mari e del commercio mondiale, con il suo Impero coloniale, con le sue compagnie commerciali, rappresenta il regno del mercante che cerca sempre più ricchezza, che conosce solo diritti mentre il teutone è qui l’eroe che ha solo doveri, che offre senza nulla chiedere in cambio. Questa rappresentazione ci ricorda Diego Lazzarich fu esposta per la prima volta da Werner Sombart nella sua opera intitolata appunto Mercanti ed eroi dove in ultima analisi il popolo tedesco si erge a baluardo contro l’avanzata del commercialismo corruttore inglese. 

Ultima opposizione seguendo sempre Lazzerich fu proposta dal politologo svedese Rudolf Kjellér che nel 1915 pubblicò il testo Ideen von 1914 che individuava nel cosmopolitismo inorganico dell’Occidente il nemico del popolo tedesco composto da una miscela di individualismo astratto e un cinico razionalismo utilitaristico che rendeva «l’anima vuota e inaridito il cuore». La Germania, per Kjellen, stava quindi combattendo una guerra ben più importante di uno scontro politico: stava combattendo contro le «idee del 1789» che avevano diffuso nel mondo borghese il commercialismo, l’eudemonismo e l’immoralità. Erano queste idee, portatrici di «libertà, uguaglianza e fratellanza» che la Germania doveva combattere opponendovi «dovere, ordine e giustizia», insomma in un’unica formula le idee del 1914 (Lazzerich D. 2009:55). Queste tre opposizioni sono quindi parte «di un unico grande scontro tra due antitetiche visioni del mondo, due antitetici emisferi valoriali, due idee di civiltà che trovano nella politica il loro più acceso terreno di scontro» (Lazzerich D. 2009:59). 

Obiettivo principale degli attacchi dei sostenitori della Kriegsideologie tra i quali gli esponenti più importanti furono il già ricordato Spengler e Thomas Mann, era il liberalismo. Lazzerich ricorda a questo proposito le tesi di Hans Zehrer che a differenza di molti che nel periodo vedevano nel bolscevismo il vero pericolo, o meglio, come vedremo dopo, la scusa per scatenare la reazione, egli vedeva nella SPD nient’altro che «un partito conservatore e reazionario» e nella rivoluzione del 1918 «una restaurazione», in cui «i liberali erano riusciti a cooptare i socialisti dissuadendoli dal seguire le loro istanze più radicali; pertanto, il socialismo sarebbe divenuto una delle “più potenti forze di protezione del sistema”, bastione e pilastro del liberalismo» (Lazzerich 2009:66). Il liberalismo sostituisce la Gemeinschaft (comunità) con la Gesellschaft(società), concetti già esposti da Tonnies ma che adesso assumono un’inesorabile opposizione e dove la comunità è «una unione […] il cui legame è esente da ogni estraneità, da ogni finalità pratica, da ogni affarismo, da ogni razionalità, da ogni carattere terreno, per fondarsi esclusivamente sull’amore» (Lazzerich 2009:66, la citazione è di W. Sombart, Deutscher Sozialismus) contrapposta alla società individualistica Occidentale. Ma non è solo in ambienti tedeschi che questi sentimenti antiuniversalistici si affermarono in questo periodo. Autore molto letto in Germania fu infatti Edmund Burke, precursore del romanticismo britannico, che già alla fine del XVIII secolo in Reflection on the Revolution in France criticava l’universalismo dei diritti dell’uomo sostenendo che questi sono invece il frutto di un eredità storica presente nella comunità di appartenenza, la tesi forte del legame di ogni uomo con il proprio popolo sarà ripresa successivamente dagli antirivoluzionari tedeschi soprattutto ma, in generale, del continente. 

Per quanto riguarda l’Italia le influenze della Kriegsideologie sono chiare in Giovanni Gentile che come i tedeschi pone la storicità, il fatto storico concreto, al centro del suo pensiero politico contrapposto al pensiero empirico kantiano. Così spiega che per la guerra si può categorizzare in tre dottrine, la prima è quella di cui parla Eraclito, la buona guerra, che non è guerra umana ma metafisica, che sfugge alla volontà umana, è una guerra di cosmiche; la seconda è invece quella a cui si oppone Kant, ma in questo caso per Gentile si deve parlare di guerre e non guerra perché ogni conflitto è determinato dal particolare fatto storico concreto, potremmo dire dalla sua contingenza; mentre la terza è quella di Fichte, quella dei Discorsi al popolo tedesco, in questo caso considerati in senso universale, cioè come rivolti non solo ai tedeschi ma a tutti i popoli, e che indicano la strada per servire la propria patria, intesi come educazione spirituale che forma il carattere di un popolo e la forza dello stato (Turi G. Giovanni Gentile. Una biografia, Giunti, Firenze, 1995, p. 232).

Afferma Gentile in La filosofia della guerra 

«Il pacifismo, infatti, come tutte le concezioni idilliche dell’umanità, sorge o risorge nelle età e, in generale, nelle situazioni spirituali prive di senso storico, ossia di vero e proprio senso della realtà. Saint-Pierre, Rousseau, Kant, appartengono al secolo dell’Illuminismo, che è il secolo antistorico per antonomasia» (Lazzerich D., 2009:101).


 La continuità di questa ideologia della guerra che supera la Prima guerra mondiale senza, potremmo dire, aver colto le conseguenze drammatiche del conflitto, e che nel periodo tra le due guerre segna in modo importante la vita della Repubblica di Weimar è forse sintetizzata nelle parole di Spengler che nel 1936 in Jahre der Entscheidung scriveva:

«siamo forse già nell’immediata vigilia della seconda guerra mondiale – ignoto è lo schieramento delle potenze né si possono prevedere i mezzi e i fini, militari, economici e rivoluzionari […] La prima guerra mondiale ha costituito per noi solo i primi lampi e tuoni delle nubi tempestose che attraversano, gravide di destino, il nostro secolo. Come allora, la forma del mondo verrà riplasmata dalle fondamenta mediante l’incipiente Imperium Romanorum» (Lazzerich D., 2009:105).

*Burgio A. , Per una storia dell’idea di pace perpetua, saggio presente in Kant I., Per la pace perpetuaPrefazione di Salvatore Veca. Traduzione di Roberto Bordiga con un saggio di Alberto Burgio, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2009, p.110).