Prima di affrontare il capitolo dedicato al trattato di Versailles e ai suoi articoli principali, bisogna considerare il sentimento che almeno fino al gennaio del 1917 aveva animato il ventottesimo presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Eletto nel 1912 per il partito democratico alla presidenza e rieletto per un secondo mandato fino al 1921 Wilson proveniva dal mondo accademico fu infatti prima professore e poi rettore dell’Università di Princeton. «Studioso di politica, aveva idee precise circa il carattere della carica presidenziale, il sistema dei partiti e il ruolo degli Stati Uniti nel consesso delle nazioni; il contributo maggiore che Wilson diede alla scienza politica durante il suo periodo accademico, risiede nel tentativo di riformulare il concetto applicato di democrazia americana, insieme ad una ridefinizione dell’idea di pubblica amministrazione e la sostituzione della nozione politica di popolo con l’idea più vasta di nazionalità» (Meneguzzi Rostagni C. L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Cedam, Padova, 2000. p. 85).
Caratteristica importante della personalità di Wilson era il suo moralismo. Inoltre il presidente americano era molto ostile al vecchio principio dell’equilibrio europeo, «in cui credeva di vedere la radice stessa delle guerre, e non aveva affatto stima per il sistema del direttorio delle potenze per il quale le grandi imponevano la loro volontà alle piccole» (Jean-Baptiste Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano,1998. p. 67).
Wilson era inoltre visto come «portatore di un Nuovo Ordine all’umanità in una misura che causò preoccupazione al resto dei capi alleati»(Albrecht-Carrié René, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Roma-Bari, 1978. p.403).
Quindi in linea con la sua formazione professionale e con i propri valori morali il 22 gennaio 1917 il presidente dichiarava dinanzi al Senato la convinzione che si dovesse mirare ad una «pace senza vittoria senza vantaggi per gli Stati Uniti ma per costruire un mondo migliore, un mondo non più basato sull’equilibrio e sulla diplomazia segreta, ma sul diritto, sugli accordi pubblici, su una associazione di potenze»(Meneguzzi Rostagni C. L’organizzazione internazionale tra politica di potenza e cooperazione, Cedam, Padova, 2000). Questo proposito però non durò molto e a seguito del perpetrarsi della guerra sottomarina tedesca il presidente muterà il proprio atteggiamento.
Già nel messaggio di Wilson al congresso degli Stati Uniti il 2 aprile 1917 si notò come egli chiedendo
«l’assenso all’imminente dichiarazione di guerra alla Germania, pose l’intervento degli USA in una dimensione ideale con il richiamo alla lotta per la democrazia, per la libertà, per il diritto delle piccole nazioni, in modo da differenziare la posizione americana da quella dell’Intesa. […] per questo Wilson non volle considerare gli USA come alleati dell’intesa e legati perciò ai trattati segreti, conclusi prima dello scoppio della guerra, ma associati, per avere le mani libere e imporre a Francia e Gran Bretagna a guerra finita le sue idee. […] lo sbocco di questo clima e di questa maturazione furono il discorso del 4 dicembre 1917 con cui Wilson chiedeva al congresso di dichiarare lo stato di guerra contro l’Austria-Ungheria e dichiarava di ricercare una pace “giusta” imposta dalle “esortazioni di tutta l’umanità”» (Meneguzzi Rostagni., 2000:86).
Da notare come il pensiero del presidente americano sia ora nettamente cambiato se paragonato al discorso del 19 agosto 1914 quando rivolto al popolo americano dichiarava: «dobbiamo essere imparziali, nei pensieri e nei fatti, tenere a freno le nostre emozioni, e qualsiasi azione che possa essere interpretata come un favoritismo nei confronti di una qualsiasi parte belligerante» (Schmitt C. Il concetto discriminatorio di guerra, Laterza, Bari, 2008:80).
Le trattative che portarono ai trattati di Parigi furono segnate dalle divergenze tra francesi, che chiedevano ampie garanzie sulla propria sicurezza e alte indennità alla Germania, e la posizione americana. Il ruolo italiano fu molto limitato così come quello giapponese.
La fermezza di Wilson resse bene sulla scena internazionale fino a quando non venne smentito dal congresso americano, che non ratificò il trattato, infatti nel marzo del 1920 la maggioranza di 2/3 non venne raggiunta al Senato e le elezioni del novembre diedero la vittoria al repubblicano Harding, che ritornò alla politica di non entanglement che aveva accompagnato gli USA per tutta la prima fase della loro esistenza, respingendo l’internazionalismo di Wilson.
Il trattato di pace fu quindi firmato a Parigi 28 giugno 1919 da 44 stati, con l’importante eccezione degli Stati Uniti che firmarono un trattato separato con la Germania nel 1921. La conferenza di pace di Parigi fu caratterizzata da tensioni sia all’interno dei paesi alleati e associati che naturalmente con i paesi usciti sconfitti dalla guerra che solo in un secondo momento presero parte ai lavori. In seno agli alleati i problemi principali riguardavano in primo luogo le intrinseche differenze tra la diplomazia europea e quella americana bene esplicitata dall’intervento del 28 giugno 1919 di Clemenceau: «la storia degli Stati Uniti è una storia gloriosa, ma recente. Per voi cento anni sono un periodo molto lungo; ma per noi è ben poca cosa. Io ho conosciuto degli uomini che avevano visto con i loro occhi Napoleone. Noi abbiamo una nostra visione della storia che non può essere del tutto le stessa che avete voi»(De Rosa G., Convegno di pace a Parigi, contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
Altra fonte di tensione riguardava l’atteggiamento verso la Russia rivoluzionaria. In questo senso la proposta dei quattordici punti di Wilson era la risposta occidentale all’internazionalismo leninista che con il decreto sulla pace del 8 novembre 1917 proponeva a tutti i belligeranti l’apertura immediata di trattative per una pace giusta e democratica. Altri punti deboli erano il vuoto istituzionale «provocato dalla disintegrazione dell’impero austro ungarico» da colmare con la creazione di stati nazionali e già la Arendt criticò questa soluzione poiché «né la lega delle Nazioni, né i trattati sulle minoranze avrebbero potuto impedire agli Stati recentemente istituiti di assimilare, più o meno coattivamente, i gruppi allogeni che vivevano nel loro territorio» (De Rosa, 2000).
Per quanto riguarda l’Italia la questione della «vittoria dimezzata» causo non poche tensioni con gli alleati, fino ad arrivare al ritiro della delegazione da Parigi, all’impresa dannunziana a Fiume, ma che in qualche misura contribuirono anche all’ascesa del fascismo, i fasci di combattimento furono fondati nel marzo del 1919. In realtà non solo il «tradimento» di Versailles, neppure lo spettro, sia pure ritardato del leninismo, ma il fallimento tutto interno alla debolezza strutturale della nostra democrazia liberale, le logomachie ideologiche del socialismo, l’inconciliabilità fra il liberalismo moderato di Giolitti e il popolarismo cattolico, infine l’illusione che tutto sommato il fascismo si sarebbe lascito «normalizzare con il tempo, crearono quel vuoto politico attraverso il quale, con compiacenza delle autorità civili e militari dell’Italia monarchica, passarono le camice nere di Mussolini dentro la cittadella dello Stato liberale».
Le opposte idee di pace, ma forse sarebbe meglio dire di imposizione della pace, anche se non bisogna dimenticare l’iniziale idea della possibile avanzata in occidente della rivoluzione russa, proposte da Lenin e Wilson per diversi motivi andarono incontro a fallimento. «Wilson mediocre e discontinuo nella partecipazione, più di una volta supponente nel suo atteggiamento di dar lezioni a tutti, controproducente per far breccia sui sottili e complicati meandri della tradizione politica e diplomatica europea nello stesso tempo cinica e gelosa fino al suicidio della parità internazionale superiorem non recognoscens, il presidente degli Stati Uniti, in sostanza, non riuscì a percepire l’antitesi di fondo tra ordinamento del mondo da una parte e pace punitiva-preventiva dall’altra. In questo senso le proposte della democrazia americana, proprio nel momento in cui si presentava come universalistica, non riuscirono a differenziarsi da quelle della democrazia francese, i cui antichi limiti “nazionalitari” già in partenza non andavano oltre una pace di prevenzione, di vendetta e di punizione» (Venerusto D. Wilson e Lenin ed i progetti di aree mondiali di democrazia e socialismo: apogeo e crisi. contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
Il passaggio dall’idea dell’espansione nei paesi avanzati della Rivoluzione d’ottobre alla realizzazione del socialismo in un solo paese è anch’esso un fallimento dell’iniziale progetto marxista-leninista.
Anche se a Parigi non ci fu nessun delegato a rappresentare la Russia bolscevica l’influenza che i fatti della Rivoluzione d’ottobre ebbero sulla conferenza di pace furono di primo piano. Le posizioni a riguardo erano eterogenee all’interno dei paesi alleati, e anche all’interno degli stessi governi, quindi si passava da posizioni favorevoli ad un massiccio intervento in Russia a fianco delle truppe Bianche tra cui possiamo annoverare il capo del governo francese George Clemenceau, il suo ministro degli esteri Stephan Pichon e il maresciallo Foch, nonché il ministro della guerra inglese Winston Churchill e Lord Curzon, ministro degli esteri che succedette a Balfour nell’ottobre del 1919, alle posizioni più moderate del premier inglese David Lloyd George e del presidente americano Woodrow Wilson che non vedevano di buon occhio un intervento armato in Russia (tra l’altro in corso e che in quel momento non prometteva buoni risultati). Queste posizioni vennero espresse già il 12 gennaio 1919 a Parigi, sei giorni prima dell’apertura ufficiale della conferenza di pace, nel contesto del Consiglio dei Dieci (Grassi L. Il congresso della pace a Parigi e la Russia, contenuto in Scottà A., a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
I francesi erano comunque i più agguerriti tra gli alleati e vedevano nell’avanzata dei comunisti russi un serio pericolo per tutta l’Europa, ma erano anche i più fermi nel disimpegno militare di truppe francesi, situazione paradossale. Del resto anche gli altri alleati non volevano assolutamente assumere nuovi impegni militari dopo i lunghi anni di guerra appena passati. La posizione critica di Lloyd George invece poggiava sul fatto che riteneva inaffidabili i leader dei Bianchi Denikin, Kolciak. In alternativa George Lloyd proponeva, appoggiato da Wilson, una conferenza con tutte le forze che combattevano in Russia sulla base di un riscontro positivo avuto con il rappresentante sovietico nel Regno Unito Maksim Litvinov a proposito di eventuali proposte di pace. Alla proposta del premier britannico si opposero sia i francesi che gli italiani. Alla fine gli alleati si accordarono di incaricare il presidente americano alla redazione di un messaggio di invito ad una conferenza di pace da svolgersi su territorio neutrale, sull’isola di Prinkipo, da inviare a tutti i governi russi. I bolscevichi però non ricevettero mai questo messaggio, «forse perché i francesi ne bloccarono la radiotrasmissione». Nonostante ciò un messaggio senza chiaro indirizzo fu intercettato da Mosca, e Cicerin, capo della diplomazia sovietica, si impegnò a mandare delegati a Prinkipo, e si impegnava a concedere amplissime concessioni politiche ed economiche ai paesi occidentali, questo però venne inteso dagli anglosassoni come un tentativo di comprare la benevolenza dei paesi capitalisti. Inoltre il rifiuto dei Bianchi a sedersi al tavolo delle trattative con i bolscevichi impedì le condizioni materiali per lo svolgimento di una conferenza che non ebbe mai luogo. In alternativa fu inviato in Russia un delegato americano, William C. Bullit che dal 10 al 13 marzo incontro i leader sovietici compreso Lenin, che più o meno riproposero le stesse concessioni già avanzate in precedenza e il riconoscimento dei governi bianchi, «pur di assicurare la sopravvivenza del potere sovietico, i bolscevichi erano dunque pronti a rinunciare ai quattro quinti della futura Unione Sovietica!» (Grassi, 2000).
Le proposte sovietiche non furono però comunicate agli altri alleati e solo Wilson e Lloyd George ne furono a conoscenza. Passarono così i giorni imposti dai sovietici per un eventuale accordo e si arrivo al 10 aprile senza che gli alleati comunicassero alcunché a Mosca. Questo mancato accordo, che sulla carta e col senno di poi era favorevolissimo per i paesi occidentali, e le motivazioni di questo silenzio possono essere forse ricollegati alla nascita della Repubblica dei Consigli in Ungheria il 21 marzo, vista come una minaccia concreta nel cuore dell’Europa e forse anche alle notizie, false, di un’eccezionale avanzata delle truppe dei Bianchi verso il Mosca. Altra motivazione fu il fatto che Wilson voleva provare un’altra via per imporre gli interessi occidentali in Russia, attraverso un piano di aiuti alimentari proposto da Herbert Hoover, il piano di assistenza alimentare aveva come scopo finale quello di annientare il potere sovietico prendendo controllo di un settore vitale dell’economia, per questo il 7 maggio venne rifiutato dai sovietici. Alla fine di maggio i governi alleati cercavano riscontro sull’avanzata delle truppe dei Bianchi ma potevano vedere solo la disfatta che si stava profilando e la definitiva vittoria dei bolscevichi, forse anche per questo il sostegno ai bianchi fu solo di facciata. Come visto quindi il problema sovietico impegnò i leader occidentali durante tutta la durata della conferenza di pace di Parigi influenzando in modo diretto e indiretto i lavori, possiamo anche dire che non fu certamente un successo. Esemplificativo è allora il commento del capo del governo italiano Vittorio Emanuele Orlando che già il 27 marzo affermava:
«in Russia dovevamo scegliere tra due politiche ugualmente logiche e sostenibili. La prima è quella dell’intervento: andare, se necessario, fino a Mosca e schiacciare il bolscevismo con la forza. La seconda consiste nel considerare il bolscevismo come governo de facto e nello stabilire con esso relazioni, se non cordiali, almeno più o meno normali. Noi non abbiamo saputo fare né luna né l’altra cosa, e abbiamo subito le più spiacevoli conseguenze delle due politiche. Senza fare la guerra stiamo in stato di guerra con la Russia». (Grassi, 2000).
Le differenti visioni politiche tra i diversi leader come visto non erano affatto secondarie e toccavano chiaramente anche le valutazione sulla Germania; quindi si passa da Wilson, che vedeva la nuova Germania come qualcosa di diverso dall’ormai crollato Reich guglielmino, ed espressione di grandissimo cambiamento erano le figure dei socialisti Ebert e Scheidemann ascesi a capo della Repubblica e del governo. Ma anche Wilson doveva confrontarsi con la propria opinione pubblica, e negli Stati Uniti era forte l’opinione soprattutto all’interno dell’elettorato repubblicano, che bisognasse vendicarsi della Germania.
Clemenceau aveva a prima vista una posizione più coerente e meno sfaccettata, nel suo impegno mai travisato di dover imporre alla Germania tutte le misure necessarie per la sicurezza francese, anche se non era però un «antigermanico di temperamento» (Becker J.J. Versailles: il compromesso necessario. contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000). Inoltre sapeva bene che la guerra era stata vinta grazie all’impegno americano, e l’accettazione immediata dell’armistizio tedesco, era legata al fatto che una prosecuzione delle azioni di guerra avrebbe portato nuovi soldati americani in Europa che a quel punto avrebbero vinto la guerra da soli e avrebbero potuto gestire le relazioni con gli stati sconfitti secondo il proprio punto di vista ridimensionando le pretese francesi. Quindi in generale le relazioni tra i due capi di stati furono caratterizzate da posizioni comuni, come sulla condanna di Guglielmo II e da compromessi, come sullo smembramento della Germania proposto dai francesi ma in chiara contraddizione con il principio di base del trattato di Versailles sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione. Qui torna il concetto espresso nel sesto paragrafo del primo capitolo sulla discriminazione della guerra, scrive Schmitt:
«nella stessa misura in cui la guerra mondiale fu presentata dai nostri avversari come un azione internazionale contro uno Stato che aveva infranto il diritto internazionale, la guerra fu fatta passare anche come un’azione punitiva diretta non contro il popolo tedesco, ma soltanto contro il suo governo. Le due cose sono inscindibilmente connesse. Ciò ha trovato definitiva conferma nel fatto che la dichiarazione del presidente Wilson del 2 aprile 1917, che aveva rotto col tradizionale concetto di guerra, ha innescato simultaneamente la spaccatura dell’unità statale tedesca, proclamando, con riferimento diretto all’eliminazione del concetto non discriminatorio di neutralità: “noi non abbiamo alcun contrasto col popolo tedesco”»(Schmitt C., 2008:73).
Quindi all’art.227 del trattato di Versailles l’ex imperatore di Germania viene messo sotto accusa, mentre negli art. 228-230 si invita il governo tedesco a consegnare i criminali di guerra, su questo punto anche gli inglesi erano in linea con gli americani.
La posizione del governo britannico durante i lavori fu delle volte ambigua. E questo fu causato dalla situazione politica interna all’impero britannico che dovette affrontare diverse crisi in Irlanda, India, Egitto e Mesopotamia, e infine nella stessa Inghilterra attraversata trasversalmente da rivolte dei minatori. Inoltre i delegati britannici spesso facevano trasparire pregiudizi nei confronti degli altri delegati francesi e italiani che non aiutarono certamente la buona conduzione dei lavori, anche se era pur oggettivamente vero, come spiegava il ministro degli esteri inglese Harold Nicolson, che chi non era pratico di lavori di commissione non poteva «immaginare le difficoltà a indurre un francese, un italiano e un britannico a giungere a un accordo su qualsiasi punto proposto». La strategia britannica durante la conferenza verteva su due punti: garantire sicurezza per la Gran Bretagna e l’Europa da una parte e per l’Impero dall’altra, quindi prevedeva anche un’azione di prevenzione per evitare l’egemonia di una sola potenza nell’Europa continentale, e con la Germania sconfitta questa non poteva che essere rappresentata dalla Francia «tanto che la Gran Bretagna bloccò i progetti francesi in Lussemburgo, nella Saar e nella Renania» (Adamthwaite A. La Gran Bretagna e i trattati di Versailles: un’opportunità persa? contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
In generale gli accordi raggiunti furono un successo per la Gran Bretagna che infatti in questo periodo raggiunse la sua massima espansione territoriale (estensione dell’Impero). Fautori del successo furono sia l’abilità di George Lloyd, che quella del segretario di gabinetto Maurice Hankey.
La linea politica del governo italiano era basata sulla formula Patto di Londra più Fiume, che sintetizzava le richieste territoriali italiane. Con il Patto di Londra l’Italia si impegnava ad entrare in guerra al fianco dell’Intesa e in caso di vittoria gli sarebbero stati assegnati il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana esclusa Fiume, una parte della Dalmazia, numerose isole dell’Adriatico, Valona e Sasena in Albania il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, e la conferma della sovranità in Libia e nelle isole del Dodecaneso. Ora a tutti questi territori l’Italia voleva aggiungere la città di Fiume in cambio della parte settentrionale della Dalmazia. Da queste richieste nacque un vero e proprio scontro tra Wilson e il governo italiano che infatti dopo le dichiarazioni a mezzo stampa di Wilson in favore degli jugoslavi del 24 aprile ritirarono la delegazione, «i capi della delegazione italiana ritornarono in patria per consultare il parlamento, che diede loro una clamorosa approvazione in mezzo a manifestazioni di oltraggiato sentimento nazionale».
Al culmine della questione italiana i giapponesi presentarono le loro richieste, che consistevano nell’assunzione della posizione tedesca in Estremo Oriente che però con l’entrata in guerra anche della Cina a questo punto andavano in conflitto. Alla fine i giapponesi ebbero ragione anche della posizione filo-cinese degli americani, e riuscirono ad ottenere il loro scopo con la conseguenza che la Cina fu la sola potenza che si rifiutò di firmare il trattato di Versailles.
Per quanto riguarda i confini orientali bisogna tornare un attimo indietro al 3 marzo 1918 quando venne firmata la pace tra la Russia rivoluzionaria e gli imperi centrali a Brest-Litovsk, che segnava l’uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale.
Le condizioni imposte alla Russia furono durissime infatti perdeva la Polonia Orientale, la Lituania, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina, e la Transcaucasia, più le città di Batum, Kars e Ardagan per un totale di 56 milioni di abitanti, circa il 32% della sua popolazione. I bolscevichi furono costretti a firmare il trattato perché ormai l’esercito si era letteralmente sgretolato e non c’era nessuna possibilità di contrapporsi alla forza dell’esercito tedesco, questo inoltre avrebbe messo a rischio la rivoluzione stessa.
«A Brest-Litovsk finirono per scontrarsi due mondi opposti e antagonisti e solo l’estremo reciproco stato di necessità permise che le trattative avessero un seguito fino alla conclusione della pace» (Biagini A. F., In russia tra guerra e rivoluzione. la missione militare italiana 1915-1918, ed. Stato maggiore dell’Esercito Ufficio Storico, Roma, 2010. p. 170), e infatti i bolscevichi vedevano la pace come un imposizione dei tedeschi, una pace «annessionista ed imperialista» rivolta contro le classi lavoratrici e contro la rivoluzione proletaria.
Delle perdite territoriali della Russia beneficiò quasi esclusivamente la Germania, che occupò militarmente l’Ucraina, rovesciò il governo socialdemocratico in Finlandia, sostituì i governi dei soviet in Lituania e Estonia con nuovi governi appoggiati dall’esercito; l’intenzione era quella di governare non solo i cittadini tedeschi, ma tutti i tedeschi, anche quelli residenti fuori dal Reich.
Ora, con la firma del trattato di Versailles «gli alleati abrogarono il trattato di Brest- Litovsk, ma incontrarono non poche difficoltà a ottenere il ritiro delle forze tedesche dai paesi baltici. Ne nacque una situazione confusa in cui questi vari stati cercarono di mantenere l’indipendenza opponendosi agli sforzi russi per riottenere il controllo del territorio».
Quindi nel 1919 si erano costituiti quattro Stati baltici, Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia, ma il problema più grande era rappresentato dalla Polonia, perché a Parigi si era deciso il suo confine occidentale, ma a oriente era ora in guerra con la Russia. Dopo che l’esercito tedesco si ritirò nel febbraio del 1919 i territori dell’Ucraina e della Bielorussia rimasero privi di controllo, così nel gennaio del 1919 i socialisti ucraini istituirono un Direttorato che si unì alla Repubblica Popolare dell’Ucraina Occidentale ma nel luglio 1919 il territorio dell’Ucraina Occidentale venne annesso dalla Polonia. Sempre nel gennaio del 1919 nasceva la Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa alla quale nel febbraio del 1919 si unì la Repubblica Socialista Sovietica Lituana e formarono la Repubblica Socialista Sovietica Lituano- Bielorussa con capitale Vilnius. Proprio con l’avanzata polacca verso Vilnius iniziò la guerra russo-polacca. Successivamente la Polonia conquistò Minsk e Kiev l’8 maggio 1920. La controffensiva sovietica iniziò il 15 maggio del 1920. L’avanzata fu continua e in agosto l’Armata Rossa era alla porte di Varsavia, ed è qui che si svolse la battaglia decisiva, quando infatti la vittoria sembrava cosa fatta per i russi, i polacchi con una controffensiva respinsero i sovietici. Secondo lo storico J.F.C Fuller la battaglia di Varsavia fu una delle più importanti di sempre. Infatti se i sovietici fossero riusciti a conquistare la Polonia e a creare un repubblica dei soviet si sarebbero ricongiunti ai rivoluzionari tedeschi portando la rivoluzione nel cuore dell’Europa.
Ora il trattato di Versailles ha comportato delle conseguenze sul piano del diritto internazionale assestando un colpo decisivo a tutte quelle regole che erano alla base del diritto pubblico europeo, quel ius publicum europaeum, che aveva caratterizzato le relazioni tra stati europei nei tre secoli precedenti (sorvolando sul fatto che già la conferenza dell’Aja del 1899 codificando delle regole consuetudinarie aveva iniziato a modificare l’assetto fino ad allora esistente). In base a queste regole il passaggio dalla guerra alla pace avveniva in tre fasi: 1) sospensione delle attività di guerra; 2) preliminari di pace; 3) trattato di pace. Quindi le parti discutevano le vari proposte di pace fissate nei preliminari e a questo punto o si giungeva ad un contratto tra di esse, il trattato di pace, o venivano riprese le operazioni belliche. Per quanto riguarda la fine della Prima Guerra mondiale queste 3 fasi non furono rispettate; innanzi tutto le condizioni dell’armistizio firmato l’11 novembre prevedevano la resa incondizionata da parte della Germania e l’abdicazione di Guglielmo II, il ritiro dell’esercito tedesco dai territori invasi e dalla riva destra del Reno, il controllo delle teste di ponte sulla riva del Reno, la consegna di armamenti pesanti, e il trasferimento della flotta tedesca nei porti inglesi. L’armistizio fu concesso per trentasei giorni, e rinnovato poi per altri due mesi fino al 16 febbraio 1919, e infine venne prorogato con la clausola che gli alleati potessero porvi termine con un preavviso di cinque giorni, come avvenne con la nota del 18 giugno che obbligava la Germania a firmare la pace entro il 23 giugno. Quindi in realtà non fu un armistizio ma una resa incondizionata. L’armistizio condizionò i lavori di pace in tre modi: gli alleati innanzitutto, concedendo la sospensione delle ostilità, riconobbero la sopravvivenza della Germania come grande potenza, assicurando che l’accordo prima o poi sarebbe stato messo in discussione. In secondo luogo gli stessi alleati raggiungendo un accordo con i rappresentanti della nuova Germania democratica si legavano le mani, poiché divenne uno dei principali interessi alleati la difesa dal bolscevismo del governo moderato socialista. Per onorare l’armistizio ci si poteva fidare solo di un alleato stabile e moderato. In terzo luogo, l’amarezza e le recriminazioni nei confronti dell’armistizio indebolì i lavori di pace di Parigi pregiudicando la stesura finale del trattato”inoltre i preliminari di pace non ci furono, perché la Germania chiedeva una pace sulla base dei Quattordici punti di Wilson* ma non ebbe alcun riscontro dall’altra parte. Inoltre una conferenza preliminare avrebbe potuto ridurre il tempo tra armistizio e firma del trattato e accelerato i lavori. Altra novità fu la condizione preliminare dell’abdicazione del Kaiser. «Considerata dal punto di vista del diritto internazionale, era la prima affermazione di un diritto di ingerenza negli affari interni di uno Stato, di diminuzione della sua sovranità, ossia del requisito fondamentale che dava titolo ad essere membro della comunità internazionale, intesa dal 1648 come il grande club dei superiorem non recognoscentes, uguali nello status e in nessun modo subordinati l’uno all’altro»(Pastorelli P. Il congresso di Parigi e la comunità internazionale. contenuto in Scottà A., a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
Inoltre essendo presenti alla conferenza solo i paesi vincitori le clausole non vennero concordate con i vinti. «Da un punto di vista sostanziale, l’assenza privò gli sconfitti di quel sia pur limitato margine di negoziato, ch’essi tradizionalmente avevano, nella formulazione delle clausole del trattato derivanti dall’accordo generale sui preliminari di pace».
Altra differenza con le precedenti conferenze di pace fu che i lavori non vennero organizzati su due livelli, uno tecnico e uno politico. Fino ad allora durante le conferenze di pace commissioni divise per materia affrontavano problemi tecnici con i rappresentanti di tutti gli Stati, che poi formulavano proposte, che venivano esaminate nelle sedute plenarie dove erano presenti tutti i partecipanti alla conferenza secondo un uguaglianza giuridica regolata dal peso politico che ogni paese aveva, e qui si svolgeva il lavoro politico. A Versailles, invece, rimasero le commissioni ed anche le sedute plenarie, ma queste non ebbero più il ruolo politico di prima; si ridussero a riunioni formali alle quali gli Stati partecipavano in modo disuguale: con cinque delegati le grandi potenze, tre le medie e uno le piccole. E «questo abbandono del principio di uguaglianza nella rappresentatività era accompagnato dall’attribuzione del potere decisionale ad un organo nuovo: il Consiglio dei Dieci, composto da due delegati per ciascuna delle cinque grandi potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone) […] Insomma questa innovazione consisteva nella reintroduzione, dopo alcuni secoli, del principio della disuguaglianza giuridica tra i membri della comunità internazionale, senza revocare o smentire quello dell’uguaglianza, ed anzi proprio quando lo si proclamava più apertamente con la formula della “democratizzazione” della comunità internazionale.
Altra novità importante inserita nel trattato stesso fu l’introduzione della categoria di giustizia, che fa l’eco a quella di guerra giusta di medievale memoria. Come scritto nella parte I del trattato che qui riportiamo in forma integrale
«le alte Potenze contraenti, considerato che per dar sviluppo al sistema cooperativo delle Nazioni, e per garantir loro pace e sicurezza occorre: accettare certi obblighi di non far ricorso alla guerra; mantenere alla luce del sole relazioni internazionali fondate sulla giustizia e sull’onore; osservare rigorosamente le sanzioni del diritto internazionale oramai riconosciute siccome regole di condotta effettiva dei governi; far che regni la giustizia e scrupolosamente si rispettino tutti gli obblighi dei trattati, nei mutui rapporti dei popoli organizzati; adottano il seguente Patto istitutivo della Società delle Nazioni»
Ma il trattato non prevedendo cessione di sovranità ad un’istituzione internazionale, poiché la Società delle Nazioni era ancora una comunità di uguali, a chi affidava l’amministrazione di questa giustizia? Il fatto è che alcuni Stati avevano maggiori poteri di altri, i membri permanenti del consiglio, le cinque grandi potenze, che di fatto dovevano amministrare questa giustizia. E che infatti decisero sulla messa in stato di accusa di Guglielmo II, sulle riparazioni di guerra, sulle colonie tedesche ecc. ecc.
«Il meno che si possa dire è che l’introduzione della categoria “giustizia” nella vita della comunità internazionale ebbe un esordio alquanto imperfetto»(Pastorelli P., 2000).
Bisogna anche ricordare che il 28 giugno 1919 a Versailles fu anche firmato un trattato tra gli alleati e la nuova Polonia che prevedeva il rispetto delle minoranze. Questo perché la comunità ebraica polacca aveva richiesto delle garanzie sul rispetto della propria caratterizzazione etnica e religiosa. Il fatto si rendeva necessario per gli ebrei polacchi poiché con il nuovo stato polacco l’amministrazione era passata in mano ai cattolici e gli ebrei nutrivano seri dubbi sul mantenimento di un controllo che fino a quel momento era gestito dagli ortodossi che avevano garantito sotto l’impero zarista il rispetto di questa nutrita minoranza. In qualche modo questa misura ricordava il sistema delle capitolazioni vigente in territorio ottomano e a cui erano sottoposti gli stranieri, secondo il quale per determinati reati venivano giudicati secondo le leggi del paese di origine e non con quelle ottomane. Questo fatto come ricorda Pastorelli fu sì di grande avanzamento ma dimostrava anche che «la costruzione territoriale realizzata non era molto perfetta [e] che far coincidere il principio del confine etnico con il confine politico era estremamente difficile»(Pastorelli P. 2000, questo principio fu applicato anche per il trattato di pace con l’Austria per la Cecoslovacchia, e nell’accordo del 1946 De Gasperi-Gruber sulla tutela della minoranza di lingua tedesca del Trentino Alto Adige, ma poi non venne ripreso nelle crisi successive).
Gli accordi di Versailles con il senno di poi vennero criticati un po’ da tutte le parti in causa, dagli Alleati stessi e naturalmente dagli sconfitti. Ma è anche vero come ha scritto Harold Nicolson, che «data l’atmosfera del tempo e date le passioni esplose in tutte le democrazie per i quattro anni di guerra, sarebbe stato impossibile anche per un superuomo concepire una pace moderata e giusta». È altresì vero che visti gli sviluppi successivi e lo scoppio della seconda guerra mondiale il trattato fu una sconfitta per i principali vincitori, Francia e Gran Bretagna; «anziché allearsi con Francia e Italia la Gran Bretagna sfuggì agli impegni rifugiandosi nell’ambiguità». Il “mago gallese” e i suoi colleghi inseguirono, purtroppo, l’illusione di un equilibrio di potere, tralasciando il classico monito di Bismark: «in un mondo di cinque o più potenze cerca di essere una delle tre» (Adamthwaite A. La Gran Bretagna e i trattati di Versailles: un’opportunità persa? contenuto in Scottà A. , a cura di, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920) . Atti del Convegno Internazionale di Studi Portogruaro-Bibione 31 maggio-4 giugno 2000, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2000).
Per quanto riguarda la forma del Trattato di Versailles possiamo divederlo in modo forse un po’ forzato tra una parte iniziale di impronta wilsoniana, che contiene il Covenant della Società delle Nazioni, e una parte potremmo dire più classica basata sulla politica di potenza tipica europea. È quindi chiaro che la convivenza tra questi due approcci non poteva non generare dei gravi problemi per l’ordine nuovo che si voleva costruire. Esempio è allora l’introduzione dei mandati per il controllo da parte degli stati europei dei territori una volta inglobati nel decaduto Impero ottomano, con una popolazione ancora incapace di autogoverno e quindi bisognosa dell’esperienza europea per governarsi. Bene al di là del rapporto che ogni potenza mandataria doveva predisporre per la Società delle Nazioni ogni anno, riguardante le operazioni svolte negli stati mandatari, la differenza con la passata politica coloniale non si notava, fu solo una formalizzazione che non scalfiva minimamente l’essenza del rapporto tra potenze europee e popoli posti sotto mandato.
In definitiva il discorso sulle criticità del trattato di Versailles può essere ricondotto al grande tema sul principio di nazionalità. Infatti tutti i problemi sul nuovo assetto che gli stati vincitori e vinti dovevano realizzare nasce dalla componente etnica, dell’unitarietà della nazione che si voleva raggiungere, fu questo il caso per quanto riguarda l’Italia degli irredenti istriani e dalmati, per la Germania della Saar, dell’Alta Slesia e delle altre zone con una popolazione a forte maggioranza tedesca (e dei Sudeti ricca regione ceduta alla Cecoslovacchia anche per far in modo che lo stato economicamente debole non collassasse subito dopo la nascita), e per il nuovo Regno dei serbi croati e sloveni delle forti divergenze causate da un territorio unitario dove convivevano etnie, culture e religioni diverse, della Cecoslovacchia con le forti divergenze tra cechi e slovacchi. Ora, abbiamo visto come il trattato di Versailles prevedesse il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli, ma questo principio venne in modo palese negato proprio al nuovo stato tedesco, sia per le zone sottratte o messe sotto mandato alleato, e sia, e soprattutto, per quanto riguarda la volontà dell’Austria tedesca, dei socialdemocratici austriaci, di entrare a far parte della Germania. Questo doppiopesismo fu riproposto anche all’interno della Società delle Nazioni, quando da una parte si dichiarava che potevano aderire all’organizzazione tutti gli Stati, ma dall’altra si negava l’ingresso alla nuova Repubblica tedesca e agli altri stati usciti sconfitti dalla guerra, quando si dichiarava l’uguaglianza di tutti gli stati, ma all’interno del Consiglio venivano distinti tra permanenti e non permanenti.
Altra critica mossa al trattato da vari correnti di pensiero era per la sua componente più politica, «alcuni lo vedevano come l’estensione del moralismo liberale del XIX secolo, una sorta di commistione di unilateralismo britannico e idealismo americano, che difettava di realismo e di comprensione delle pressioni politiche che animavano la gente». Inoltre il trattato venne anche interpretato da alcune parti come una crociata anticomunista, «il liberalismo ostentato mascherava un disegno fondamentalmente reazionario e profondamente conservatore, che può essere definito come contenimento o, ancor più esattamente, schiacciamento del bolscevismo» .
* 1)Convenzioni di pace palesi, in base alle quali non vi saranno accordi internazionali segreti di alcuna specie, ma la diplomazia agirà sempre palesemente e in vista di tutti. 2)Libertà assoluta della navigazione sui mari all’infuori delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, salvo per i mari che potessero essere chiusi in tutto o in parte mediante un’azione internazionale in vista dell’esecuzione degli accordi internazionali. 3)Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace e si associeranno per mantenerla. 4)Garanzie convenienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti all’estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese. 5)Libera sistemazione, con spirito largo e assolutamente imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto. 6)Sgombero di tutti i territori russi e soluzione di tutte le questioni concernenti la Russia, che assicuri la migliore e più libera cooperazione delle altre nazioni per dare alla Russia il modo di determinare, senza essere ostacolata né turbata, l’indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria politica nazionale. 7)Quanto al Belgio il mondo intero sarà d’accordo che esso deve essere sgombrato e restaurato senza alcun tentativo di limitare la sovranità di cui gode nel concerto delle altre nazioni libere. Nessun altro atto servirà, quanto questo, a ristabilire la fiducia tra le nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato per regolare le loro reciproche relazioni. Senza questo atto salutare tutta la struttura e la validità di tutte le leggi internazionali sarebbero per sempre indebolite. 8)Tutto il territorio francese dovrà essere liberato e tutte le regioni invase dovranno essere restaurate il torto fatto alla Francia dalla Prussica nel 1871, per quanto riguarda l’Alsazia- Lorena, e che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant’anni, dovrà essere riparato, affinché la pace del mondo possa ancora una volta essere garantita nell’interesse di tutti. 9)La sistemazione delle frontiere dell’Italia dovrà essere effettuata secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10)Ai popoli dell’Austria- Ungheria, il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito fra le nazioni, si dovrà dare aiuto e occasione per uno sviluppo autonomo. 11)La Romania, la Serbia e il Montenegro dovranno essere sgombrati e i territori occupati dovranno essere restituiti. Alla Serbia dovrà accordarsi un libero e sicuro accesso al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici dovranno essere fissate amichevolmente secondo i consigli delle Potenze e in base a linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite a questi Stati balcanici garanzie di indipendenza politica ed economica e per l’integrità dei loro territori. 12)Una sicura sovranità sarà garantita alle parti turche dell’impero ottomano; ma le altre nazionalità che si trovano in questo momento sotto la dominazione turca dovranno avere garantita una indubbia sicurezza di esistenza e il modo di svilupparsi senza ostacoli autonomamente. I Dardanelli dovranno essere aperti permanentemente e costituire un passaggio libero per le navi e per il commercio di tutte le nazioni sulla base di garanzie internazionali. 13)Dovrà essere stabilito uno Stato polacco indipendente, che dovrà comprendere i territori abitati da popolazioni incontestabilmente polacche, alle quali si dovrà assicurare un libero e sicuro accesso al mare e la cui indipendenza politica ed economica, al pari dell’integrità territoriale, dovrà essere garantita con accordi internazionali. 14)Una Associazione generale delle Nazioni dovrà essere formata in base a convenzioni speciali, allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica, e di integritàterritoriale ai grandi come ai piccoli Stati» (Adamthwaite A. 2000).
Si arrivò quindi ad un compromesso tra Stati Uniti da un lato e Francia e Inghilterra dall’altro.
Il trattato, diviso in 440 articoli, prevedeva quindi che:
secondo l’articolo 42 è proibito alla Germania mantenere o costruire fortificazioni sia sulla riva sinistra del Reno, sia sulla riva destra, all’ovest di una linea tracciata a 50 chilometri da questo fiume;
secondo l’articolo 43 sono parimenti vietate, nella zona definita dall’articolo 42, il mantenimento o la riunione di forze armate, a titolo permanente o temporaneo, e le manovre militari di qualsiasi natura e il mantenimento di materiali facilitazioni di mobilitazione;
secondo l’articolo 34 nel caso in cui la Germania contravvenga in qualsiasi modo alle disposizioni degli articoli 42 e 43 sarà considerata come autrice di un atto di ostilità di fronte alle Potenze firmatarie del presente trattato e tentante di turbare la pace nel mondo;
secondo l’articolo 51 i territori [Alsazia Lorena] ceduti alla Germania in virtù dei preliminari di pace firmati a Versailles il 26 febbraio 1871 e del trattato di Francoforte del 10 maggio 1871, vengono reintegrati sotto la sovranità francese a datare dall’armistizio del 11 novembre 1918;
secondo gli articoli 80, 81, 87 la Germania riconosce i confini di Austria, Cecoslovacchia e Polonia;
secondo la parte VII allegato 3 la Germania cede agli alleati tutte le navi della sua flotta mercantile eccedenti le milleseicento tonnellate lorde, la metà di quelle fra mille e milleseicento tonnellate ed un quarto dei suoi battelli da pesca […] inoltre la Germania si impegna, se richiesta, a costruire annualmente e per un periodo di cinque anni, per gli alleati, duecentomila tonnellate di navi di quel tipo che le sarà indicato, e il valore di queste navi le verrà accreditato contro quello che essa deve per riparazioni;
secondo l’articolo 119 la Germania rinuncia a favore delle principali potenze alleate e associate a tutti i i suoi diritti e titoli , sui suoi possedimenti di oltre mare;
secondo gli articoli 121 e 297b i governi alleati e associati si riservano il diritto di liquidare tutte le proprietà diritti ed interessi appartenenti, alla data dell’entrata in vigore del presente trattato, a nazionali tedeschi o a società da essi controllate nelle colonie ex tedesche. Queste stesse disposizioni si applicano anche alla proprietà privata in Alsazia Lorena, il governo francese però vieta l’applicazione della disposizione nei casi in cui i cittadini tedeschi desiderino continuare a risiedere in Alsazia Lorena;
secondo l’articolo 160 a datare dal 31 marzo 1920 al più tardi, l’esercito tedesco non dovrà comprendere più di sette divisioni di Fanteria e tre divisioni di Cavalleria. Da questo momento la totalità degli effettivi dell’esercito degli stati che costituiscono la Germania non dovrà sorpassare centomila uomini, ufficiali e depositi compresi e sarà esclusivamente destinata al mantenimento dell’ordine sul territorio e alla polizia delle frontiere;
secondo l’articolo 173 qualsiasi servizio militare universale obbligatorio sarà abolito in Germania. L’esercito tedesco non potrà essere costituito e reclutato in altro modo che non sia il sistema del volontariato obbligatorio;
secondo art 235 la commissione delle riparazioni ha potere fino al 1 maggio del 1921, per domandare in pagamento alla Germania una somma fino ad un miliardo di sterline, in quel modo che essa crederà di stabilire sia in oro come in merci , navi, titoli od altrimenti;
secondo l’articolo 258 la Germania rinuncia al diritto di ogni partecipazione in qualsiasi organizzazione finanziaria o economica di carattere internazionale operante in uno qualsiasi degli stati alleati o associati o in Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia, o nelle dipendenze di questi stati o nel cessato impero russo;
secondo l’articolo 297b gli alleati si riservano la facoltà di ritenere e di liquidare tutte le proprietà, diritti ed interessi appartenenti, alla data dell’entrata in vigore del presente trattato, a nazionali tedeschi o a società da essi controllate, situate nei loro territori, colonie, possedimenti e protettorato, inclusi i territori ad essi ceduti dal presente trattato;
secondo le disposizioni relative al carbone e al ferro l’articolo 45 come compenso per la distruzione delle miniere di carbone del nord della Francia e come parziale pagamento del totale delle riparazioni dovuti dalla Germania per i danni risultanti dalla guerra , la Germania cede alla Francia, in pieno, assoluto possesso, con diritto esclusivo di sfruttamento, senza alcuna limitazione, e liberate da ogni debito o carico di qualsiasi natura, le miniere di carbone situate nel bacino della Saar le miniere «sono cedute alla Francia in via assoluta» (Keynes J. M. Le conseguenze economiche della pace, Rosenberg & Seller, Torino, 1983. p.71). L’amministrazione del distretto è invece affidata alla Francia per 15 anni dopo di che la popolazione tramite referendum potrà scegliere la sovranità futura. La Slesia del Nord dovrà, salvo quanto possa essere deciso in contrario dal referendum , passare alla Polonia;
secondo il paragrafo II dell’allegato V del capitolo delle riparazioni «la Germania consegnerà alla Francia sette milioni di tonnellate di carbone l’anno per lo spazio di dieci anni. Inoltre la Germania consegnerà alla Francia una quantità di carbone uguale alla differenza fra la produzione annuale d’ante guerra delle miniere del nord e del passo del Calais, distrutte per fatti di guerra, e la produzione del bacino coperta da queste miniere durante l’annata corrente. Quest’ultima fornitura sarà effettuata per dieci anni e non sorpasserà venti milioni di tonnellate all’anno nei primi cinque anni seguenti. Resta inteso che ogni cosa sarà fatta, per la rimessa in attività delle miniere del nord e del passo del Calais». Secondo le disposizioni finali relative al carbone la Germania consegnerà carbone o equivalente in coke: sette milioni di tonnellate alla Francia ogni anno per dieci anni; otto milioni di tonnellate al Belgio tutti gli anni per dieci anni; per quanto riguarda l’Italia una quantità annua crescente anno per anno da quatro milioni e mezzo di tonnellate nel 1919-1920 fino a otto milioni e mezzo di tonnellate nel 1928-29; tutto questo per un totale di venticinque milioni di tonnellate.
secondo gli articoli 264, 265, 266, 267, la Germania si impegna ad accordare agli stati Alleati ed Associati per un periodo di cinque anni, il trattamento della nazione più favorita. Ma essa non ha diritto ad eguale trattamento. Non può stabilire alcuna imposta sulle importazioni dagli stati Alleati ed Associati maggiore della imposta più favorevole prevalente prima della guerra; l’esclusione del Lussemburgo dall’Unione doganale tedesca;
secondo l’articolo 250 la Germania deve cedere agli Alleati cinquemila locomotive e centocinquanta mila vagoni ferroviari in buono stato;
secondo gli articoli 338 e 334 in Germania la gestione dei fiumi condivisi con altri paesi è affidata a commissioni internazionali;
secondo l’articolo 102 Danzica è costituita città libera;
secondo l’articolo 227 «le potenze alleate pongono in stato di accusa Guglielmo II di Hohenzollern, ex imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e l’autorità sacra dei Trattati» questo articolo noto anche come bill of attainder, fu un atto legale volto specificatamente a punire l’imperatore tedesco Guglielmo II (Laughland J. Guerra atotale in nome del bene. articolo contenuto in Limes, 2014-1914 L’eredità dei grandi imperi del 5 maggio 2014);
secondo l’articolo 228 «il governo tedesco riconosce alle potenze alleate e associate l’autorità di tradurre dinanzi ai loro Tribunali militari, le persone accusate di aver commesso atti contrari alle leggi e ai costumi della guerra. Le pene previste dalle leggi saranno applicate alle persone riconosciute colpevoli. Questa disposizione si applicherà ad onta di qualsiasi procedura dinanzi a una giurisdizione della Germania o dei suoi alleati. Il governo tedesco dovrà consegnare alle potenze alleate o associate o a quelle di esse che ne faranno richiesta, tutte le persone, accusate di aver commesso un atto contrario a qualsiasi legge o costume della guerra, che siano designate nominativamente, oppure per grado, oppure per la funzione o l’impiego a cui queste persone erano state adibite dalle autorità tedesche»;
secondo l’articolo 229 «gli autori di atti contro i sudditi di una delle potenze alleate e associate, saranno tradotti dinanzi ai Tribunali di questa potenza. Gli autori di atti commessi contro i sudditi di varie potenze alleate e associate, saranno tradotti dinanzi ai Tribunali militari, composti di membri appartenenti ai Tribunali militari delle porenze interessate. In ogni caso l’accusato avrà diritto di nominarsi il suo avvocato»;
secondo l’articolo 230 «il governo tedesco si impegna a fornire tutti i documenti e informazioni di qualsiasi natura, e di cui la produzione sia giudicata necessaria, per l’istruttoria completa dei fatti incriminati; la ricerca dei colpevoli, e l’esatto apprezzamento delle responsabilità»;
secondo l’articolo 231 i governi alleati e associati dichiarano e la Germania riconosce che la Germania e i suoi alleati sono responsabili per esserne stati la causa di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai governi alleati e associati e i loro nazionali in conseguenza della guerra che è stata a loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati.